Gli avventori della Gran Pinta gli avevano regalato uno specchio. Strumento indispensabile per un attore solitario, e ancor più per il nuovo Scaramouche, che non poteva chiedere a nessuno di dargli una sistemata prima di entrare in scena.
Uno specchio a figura intera, sontuoso, con la cornice in legno di mogano. Léo non aveva dubbi sulla sua reale provenienza: il saccheggio della villa di un nobile emigrato, regalo più che adatto a un giustiziere di accaparratori.
Il suo costume doveva essere impeccabile, per impressionare al massimo l’unico spettatore ammesso alla recita: la vittima designata. Solo la cura dei dettagli permetteva al suo spettacolo di resuscitare nei racconti del giorno dopo, e di raggiungere così il pubblico che meritava.
Si infilò l’abito di cuoio, strinse il corpetto in cintura, calzò guanti e gambali, controllò che i nodi avessero un fiocco perfetto.
L’uomo da intimidire si chiamava Derobigny, grossista di sapone. Il nome glielo aveva passato un gruppo di lavandaie. L’accusa era pesante: non solo il tizio tratteneva la merce per poi lucrare sulla sua scarsità, ma offriva sconti per il pagamento in natura. Le donne si erano raccomandate di fargliela pagare anche per questo e Léo si era messo subito all’opera.
Non aveva indagato sulle reali colpe di Derobigny. Mettersi a fare lo sbirro non rientrava nelle sue mansioni.
– Io rappresento il popolo, – disse rivolto allo specchio.
I preparativi erano stati più lunghi del solito. Ogni nuova azione andava curata meglio della precedente. Quel Treignac lo aveva messo sull’avviso: il tempo delle improvvisazioni era finito. Se voleva fare carriera nel Nuovo Teatro, doveva imparare a lasciar tracce solo nel cuore degli spettatori.
Prima cosa, studiare l’avversario. Derobigriy era un commerciante ricco, arrogante, ché andava spesso in giro con gecchi della sua risma e, soprattutto, in compagnia di una grossa pistola.
Léo si era fatto l’idea che l’attacco dovesse avvenire nel cuore della notte, mentre il suo uomo dormiva sonni beati.
Quindi era passato a studiare il terreno dello scontro.
L’appartamento si trovava al secondo piano di un palazzo borghese. Il portone d’ingresso presidiava via San Paolo. Dalla parte opposta, piccole finestre affacciavano su un vicolo stretto, destinato a morire pochi passi più in là. Sotto la sporgenza del tetto, dal muro spuntava una trave, a sostegno della puleggia di una carrucola.
Léo aveva deciso che grazie a essa sarebbe intervenuto sulla scena ex machina.
Nel cortile della Gran Pinta sporgeva un montacarichi dello stesso tipo. Un intero pomeriggio passato a provare e riprovare il lancio, con una fune e un gancio da macellaio.
Il mattino dopo, allenamento intensivo di arrampicata su corda. Una volta in cima, non sarebbe stato difficile forzare la finestrella: aveva l’aspetto malconcio di uno sfiatatoio da sgabuzzino. Per stare sul sicuro, Léo s’era fatto prestare un ferro da Patrique il bottaio, che a quanto si diceva usava certi attrezzi per violare dimore, molto più spesso e volentieri che per stappare barili.
– Io rappresento il popolo, – recitò brandendo il piede di porco.
Si rese conto che la battuta si prestava a una doppia interpretazione. «Rappresentare il popolo» significava agire per suo conto, ma significava pure «metterlo in scena». Scaramouche interpretava ciò che il popolo avrebbe fatto ai monopolatori, se solo avesse potuto colpire, lesto e impunito, come un uomo mascherato che ha il favore delle tenebre. Era quella, si disse, la forma di rappresentanza più genuina, altro che elezioni, mandati e lunghe sedute fra quattro mura. Non era un caso se la rivoluzione aveva concesso agli attori il sacrosanto diritto di essere eletti. Tanti suoi colleghi, dopo la presa della Bastiglia, erano entrati nella guardia nazionale, suscitando lo sdegno di chi li chiamava «i commedianti combattenti». Gente gretta, vecchi cascami dell’antico regime, quando agli attori si rifiutava la sepoltura in terra consacrata. Ora invece, un saltimbanco come Collot d’Herbois sedeva alla Convenzione e l’intera Convenzione sedeva nella sala da spettacoli delle Tegolerie, un teatro da seimila posti.
– Io rappresento il popolo, – ripetè in tono compiaciuto.
Si mise il mantello, alzò il cappuccio, raccolse gli attrezzi in una sacca e uscí nella notte.
Giunto nel vicolo che doveva servirgli da retropalco, si accorse che l’allenamento dei giorni precedenti aveva una pecca: la luce del sole. Senza quella, arpionare la fune al braccio montacarichi diventava tutta un’altra faccenda. Inoltre, quel culo di sacco era pure stretto, mentre Léo s’era esercitato a lanciare in un cortile, dove poteva permettersi gesti ampi e larghe sbracciate. Al primo tentativo, il gancio metallico rimbalzò sul muro alle sue spalle e per poco non gli infilzò il cappuccio come un amo da pesca. Un palmo più in basso e l’arnese gli si sarebbe conficcato nella nuca. Léo immaginò il suo cadavere, ritrovato all’alba nell’acqua di scolo, simile a un grosso cefalo catturato alla lenza, per di più travestito da Scaramouche. Decise di dare meno gioco alla corda, provò una rotazione laterale invece che sopra la testa, e forse al decimo lancio riusci nell’impresa.
Saggiò la tenuta del canapo con un paio di strattoni: reggeva. Sputò sui guanti per migliorare la presa e iniziò la scalata, puntellando i piedi contro la parete oppure sui nodi che aveva disseminato lungo la fune.
Gli doleva una spalla per il troppo lanciare, e anche la risalita fu più faticosa che nelle prove generali.
Per fortuna, la finestrella si rivelò scalcagnata come previsto e l’attrezzo di Patrique davvero professionale.
Scaramouche si calò la maschera, l’aggiustò sul naso, spalancò l’infisso e atterrò nell’appartamento dell’infame Derobigny.
Il buio non consentiva di guardarsi intorno, ma comprese lo stesso di trovarsi in un ambiente di dimensioni ridotte. L’odore di resina e carbone faceva pensare a un deposito di legna. Tutt’intorno silenzio, la casa dormiva.
Avanzando a tentoni, scopri sul muro di fronte la maniglia di una porta. La abbassò e aprí uno spiraglio. Una luce fioca si intrufolò nella stanza. Allargò la fessura e inquadrò una scrivania, una sedia, un candelabro con tre moccoli e due fiammelle. Spinse l’anta di qualche grado ancora, sporse l’occhio sinistro ed ebbe la conferma che la sala era vuota. Il ricco profittatore poteva permettersi di andare a letto dimenticandosi due candele accese!
Scivolò nella penombra, strisciando lungo la parete, il piede di porco accanto alla gamba destra.
Raggiunto lo spigolo del muro, prese fiato e roteò il collo per sciogliere i nervi.
Si affacciò dall’altra parte.
Una mano gli afferrò la spalla e lo scaraventò a terra, colpi che dovevano essere calci lo raggiunsero alle costole e al bacino, tentò di reagire, ma qualcuno gli strappò l’arma.
– Fermo o sparo!
Léo rivolse in alto lo sguardo e scorse tre sagome in piedi.
Nel corridoio alle loro spalle si aprí una porta e ne uscí un uomo che reggeva una lampada.
La luce passò di mano e fini a illuminare un viso, un braccio, una pistola..
– Treignac? – domandò Léo ad alta voce, ma la domanda era rivolta a sé stesso.
– Roland, i ferri, – ordinò lo sbirro a uno degli attendenti.
Aveva un tono secco, definitivo, appena intaccato dalla stanchezza delle tre di notte. Léo comprese che nessuna scusa gli avrebbe evitato l’arresto. Eppure provò a giustificarsi.
– Derobigny faceva incetta di...
– Derobigny è in galera, – rispose Treignac. – Da ieri pomeriggio.
Léo accolse la notizia con una bestemmia. Gli misero i ferri ai polsi.
– Di che mi accusate? – domandò allora. – Non ho rubato niente.
Lo sbirro calò su di lui come in picchiata. Strappò il mantello, agguantò la maschera per il naso e gliela strappò dalla faccia. Léo si ritrovò una pistola in mezzo agli occhi.
– Se Derobigny è un accaparratore lo deciderà il tribunale, – disse Treignac. – Tu invece andrai alla ghigliottina senza bisogno di processo.
– Alla ghigliottina? – strillò Léo. – Ma siete impazzito?
Io sono un buon cittadino, un rivoluzionario.
– Tu sei un pagliaccio, – lo gelò Treignac, – un pagliaccio che si è accaparrato il diritto di esercitare la giustizia. Dunque sei un accaparratore, e come tale sarai punito.
– Col cazzo! – sbavò l’attore come un cane ringhioso. La sola idea della ghigliottina gli mandava il sangue al cervello. Sapeva che lo sbirro non poteva dire sul serio, che c’erano di mezzo gelosia e questioni personali, eppure in quei tempi sottosopra l’ipotesi del patibolo non era mai troppo remota. Per questo seguitò a imprecare in maniera scomposta, con buona pace delle sue doti d’attore.
Treignac fece segno agli altri di mettere in piedi il prigioniero e portarlo via.
Poi raccolse la maschera di Scaramouche e se la legò in cintura come un trofeo di caccia.