2.

Di nuovo in una cella, e di nuovo l’assalto dei ricordi.

«Tu sei un pagliaccio», gli aveva detto Treignac.

«T’î prôpi un paiâz! », gli aveva detto Mingozzi sette anni prima, soffermandosi sulla ò mentre scuoteva la testa per l’ultima di tante volte, l’ultima sera che si erano visti. L’ultima sera a Bologna.

Ironia della sorte, era anche una delle ultime sere di carnevale, come nella commedia di Goldoni, quella che il maestro aveva scritto come addio a Venezia, prima di partire per la Francia.

Imparato che ebbe a difendersi, leggere, scrivere e far di conto, precisamente in quell’ordine, Leonida divenne l’aiutante del suo quasi padre. Mingozzi era tra i sessanta e i settantanni, età ragguardevolissima; il vecchio corpo girava ormai a rilento, gli occhi erano deboli, e il ragazzo gli faceva comodo: lo aiutava nelle faccende più pesanti e andava in città a fare commissioni. «Mè a fâg ad tòtt! Largo al fâgtotum!», celiava Leonida mischiando petroniano e latinorum alla maniera di un personaggio di commedia che andava per la maggiore, al dutåur Graziàn.

Infatti, la passione per il teatro continuava ad ardere. Il ragazzo, ormai quasi uomo, aveva convinto il marchese Albergati a prenderlo come attore. Il più delle volte era un semplice figurante, faceva la parte di un fattorino che entrava in scena, ne usciva e non si vedeva più, oppure di un vendugliuolo che serviva una comare da dietro una bancarella, o ancora di un indistinto membro del popolino, sullo sfondo di una scena di piazza.

Leonida cominciò ad approfittare delle commissioni in città per assistere a spettacoli di strada e, ogni volta che poteva, alle prove delle compagnie teatrali. Quasi sempre le prove, mai le rappresentazioni, perché la sera non poteva trattenersi. Un’ora prima del tramonto, usciva dalla Porta Saragozza e si dirigeva verso Zola. E col passare degli anni, rincasava sempre più a malincuore. Bologna lo attirava, con il suo sfarzo, i suoi palazzi, i portici affollati, le piazze piene di colori... E i mercati, le balle di pittoreschi personaggi e giovinastri sfrontati, le belle popolane...

Di gnocca ce n’era anche a Villa Albergati e dintorni, e Leonida non era un timido. Aveva già avuto la sua bella parte d’incontri galanti con camerierine, lavandare, contadinelle, nei boschetti o nei fienili, persino qualche sveltina nelle stanze barocche della villa, le volte che s’intrufolava mentre una servetta rassettava. Cresciuto come il figlio di tutti, per Leonida erano tutte sorelle e sorelline, farci all’amore era un gioco.

Le donne di Bologna erano un’altra cosa, ben più seria. Per un ragazzo di campagna erano una sfida, ogni sguardo era una promessa, un’allusione... O almeno così sembrava a Leonida, che più volte ebbe a fraintendere un’occhiata, una movenza, una parola a mezza voce, e si comportò dal zanni che era, giocando un po’ troppo di mano e ritrovandosi subito addosso il fratello, il padre o il promesso sposo infuriato di qualcheduna. A Dio piacendo, e per merito delle lezioni di vita di Mingozzi, nelle risse il giovane se la cavava bene, ma non poteva evitare di portare a casa almeno un segno della giornata: un’escoriazione, uno strappo alla camicia, un occhio nero.

A Mingozzi non piacevano punto quelle lunghe assenze, quel bighellonare in città, e soprattutto quell’attaccare briga senza bisogno. Accoglieva Leonida con rimproveri rochi: «Hai fatto ancora a pacche con qualche ’sgraziato! Sei il bastone in culo della mia vecchiaia! E i soldi della paga? Li hai spesi ancora in vino e puttane? Ci hai più di vent’anni e non hai ancora messo la testa a posto! Quand’è che ti trovi una brava donna?»

Leonida era un giovane irrequieto, e non accettava più di «stare al posto suo», ammesso e non concesso che l’avesse mai accettato. Una sera, aveva accusato il vecchio di essere cme al fatåur ed Montagó, ch’l insgnèva d’arsparmièr par spanndrì ló, ovvero: bella forza predicare di non divertirsi con le donne, lui che non s’era mai sposato e aveva sparso figli da Santarcangelo a Castelfranco.

Intanto gli anni passavano e, per la verità, Leonida a puttane ci andava ben di rado. Non ne aveva gran che bisogno: per le voglie della carne c’erano le «sorelle», e intanto faceva il galante, in cerca di un amore in nome del quale – lui, un orfano! – sfidare a tenzone il mondo. Un amore di quelli cantati dai trovadori. E sognava sempre di far l’attore, e per la verità lo faceva, grazie al marchese Albergati che adesso gli dava ruoli più perspicui.

Quel che gli mancava, nell’andirivieni randagio tra Zola e Bologna, era la gloria. Oltre all’amore, naturalmente. Tutt’al più gli capitava qualche amorazzo.

Le sbarre si schiusero di fronte a Léo dopo dieci giorni di gattabuia. Il massimo della pena per un’effrazione con scasso, comunque sufficienti per patire la fame, buscarsi un brutto raffreddore e rimediare la scabbia.

La guardia gli lanciò un fagotto piuttosto pesante. L’abito da Scaramouche.

Léo protestò: mancava la maschera.

– Quale maschera?

– Una maschera di cuoio con un grosso naso.

– Io non l’ho vista, – sorrise quello con aria sorniona. – E adesso muovetevi.

Il secondino lo scortò lungo il corridoio, attraversarono un paio di cancelli e giunsero alla sala d’ingresso.

Ad aspettarlo c’era Treignac con altri due sbirri.

– Legategli i polsi, – ordinò ai suoi.

– Che vi salta in mente? – scattò Léo. – Sono un libero cittadino, adesso.

– Al tempo, – lo fermò Treignac con la mano alzata, mentre gli attendenti procedevano nel lavoro con una grossa corda.

Léo li lasciò fare, non voleva dare pretesti per ulteriori accuse, ma intanto sbraitava che era suo diritto sapere cosa lo aspettava e dove lo avrebbero condotto.

– In Piazza Rivoluzione, – fu la sola risposta. – C’è una cosa che devi vedere.

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