I.

Seduto su una panca ai margini del cortile in compagnia di Malaprez, Laplace osservava divertito gli sforzi di Molière, un folle che portava quel soprannome per via delle velleità da drammaturgo.

L’uomo era un tipo tranquillo, di una certa cultura, e la sua presenza a Bicêtre poteva sembrare inspiegabile, se non fosse che fuori da quelle mura aveva tentato più volte di togliersi la vita.

Molière amava allestire piccole rappresentazioni, utilizzando come attori gli altri alienati, e poiché quell’impegno era un toccasana per il suo umor nero, il governatore Pussin gli aveva concesso di coltivarlo, a patto che non pretendesse dalla sua compagnia risultati impeccabili e obbedienza cieca.

Laplace rimirò la confusione che regnava intorno al commediografo e pensò che un uomo del genere non avrebbe ottenuto obbedienza nemmeno da un gregge.

Imporre la propria volontà, pensò, è tutt’altro che un piccolo affare.

Puységur gli aveva scritto una volta che il volere funziona come l’elettricità. Ma mentre quella può passare da un corpo all’altro per semplice contatto, la volontà deve sempre superare una distanza, dal momento che non è possibile accostare due menti. Essa dunque si trasmette come una scarica, passando dall’uomo che ne ha accumulata abbastanza a quello che ne possiede di meno. Pertanto, chi intende trasmetterla ad altri deve compiere due operazioni: prima di tutto deve caricarsi di volontà, cosa tutt’altro che facile, poiché gli uomini tendono a disperderla in mille rivoli. Se per caricare una barra di rame basta isolarla da terra e metterla in comunicazione con una macchina elettrostatica, per l’uomo è molto più complicato isolare la mente, ed egli deve produrre da sé la volontà che gli occorre, dal momento che una macchina capace di generarla non è ancorà stata inventata. Fatto questo, egli deve anche ridurre la distanza, avvicinarsi alla mente dell’altro fino a far scoccare il fulmine.

Laplace ricordò quelle parole.

Dopo averle lette, aveva posto a Puységur il problema di trasmettere la volontà, nello stesso istante, a molti individui. Se infatti, grazie al mesmerismo, è possibile avvicinare la mente di un altro uomo, come può il magnetista riprodurre quella speciale relazione con molti soggetti contemporaneamente? Mesmer aveva formato catene umane, e lo stesso Puységur usava grosse funi per mettere in contatto i suoi contadini con un olmo magnetizzato. Ma era davvero sufficiente un semplice legame fisico?

La risposta di Puységur era stata molto vaga, segno che nemmeno lui aveva le idee chiare in proposito.

Laplace ricordò una dimostrazione scientifica.

Era insieme al barone, tra gli invitati di una grande festa nel giardino di Versailles. Un filosofo alla moda si era messo in testa di migliorare un famoso esperimento, quello dell’abate Nollet. Nel 1752, usando una bottiglia di Leida, l’abate aveva folgorato una fila di duecentoquaranta guardie reali, sotto gli occhi di Luigi XV in persona. Il ciarlatano voleva fare cifra tonda e, molto sicuro di sé, aveva fatto schierare quattrocento soldati, ordinando loro di prendersi per mano. Come accumulatore di elettricità, invece di mettere in batteria molte bottiglie, per ottenere un effetto maggiore si era servito di un’enorme damigiana, fatta soffiare apposta da un amico vetraio.

Il risultato era stato che la scarica si era fermata al soldato numero quindici, e di li in poi nessuno più l’aveva avvertita.

Il filosofo si era difeso dicendo che, evidentemente, quel soldato mancava di ciò che costituisce il tratto distintivo di un maschio adulto. L’altro, per lavare l’offesa e vendicare la propria virilità, aveva sfidato a duello l’impostore e nel giro di una mezz’ora il filosofo era uscito dalla reggia di Versailles in posizione orizzontale, ucciso da un proiettile nel collo.

Laplace era rimasto talmente disgustato dall’intera sceneggiata che quella si era trasformata in un sogno ricorrente, dove al posto dei quattrocento soldati c’era un’armata di esseri mostruosi, dai musi di bestia e dai nasi enormi.

Gli piaceva pensare che il proprio disincanto nei confronti della monarchia francese fosse iniziato quel giorno, davanti a quell’intrattenimento inutile, fanfaronesco, mal riuscito e invecchiato peggio.

Laplace guardò ancora Molière alle prese coi suoi attori recalcitranti.

– Tu non partecipi alla recita di oggi pomeriggio? – domandò a Malaprez.

Il bifolco scrollò la testa con decisione.

– Recitare non mi piace, – affermò. – E poi Molière vuole che si fa solo come dice lui.

– E tu invece vorresti fare di testa tua?

– No, di testa mia no. Se faccio di testa mia, lo so che non viene fuori niente di buono. Però se uno vuol dirmi quel che ho da fare, bisogna che almeno lui abbia le idee chiare, giusto?

– Giusto, Malaprez, – disse Laplace in tono soddisfatto. – Tu sei molto più saggio di quanto non dài a intendere.

Ora Molière, con un plico di fogli tra le mani, ripeteva nervoso la battuta a uno degli attori, scandendo con gli zoccoli il ritmo della parole.

– Sai almeno di che recita si tratta? – domandò Laplace.

– Boh, – commentò l’altro stropicciandosi il mento. – Mi sa che è un funerale.

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