2.

Il funerale riguardava tre persone.

Ovvero: tre individui si contendevano il posto d’onore, quello del morto.

Insieme a loro, intenti a discutere, c’era anche Molière. La diatriba andava avanti da una buona mezz’ora, quando Laplace vide il drammaturgo staccarsi dal gruppo e avanzare verso di lui.

– Ci serve il vostro parere, – disse il folle in tono accorato.

– In merito a cosa? – domandò Laplace.

– A chi dev’essere Marat, – spiegò Molière. – Jerôme dice che siete stato voi a soprannominarlo così e vuole che ci spiegate il motivo.

– Gli somiglia, – tagliò corto Laplace.

– Si, d’accordo. Ma pure gli altri pensano di essere dei perfetti Marat, e se non risolviamo la questione, i sorveglianti ci rimanderanno alle celle prima di aver fatto il funerale.

Laplace non domandò spiegazioni. Sapeva che non solo Molière, ma molti matti di Bicêtre amavano mettere in scena i fatti di cronaca più eclatanti, per sentirsi partecipi dei grandi avvenimenti che scuotevano la Francia. Il funerale di Marat aveva occupato le pagine dei giornali, i discorsi degli inservienti e i racconti dei visitatori, e si conoscevano talmente tanti dettagli di quella giornata, da poterla riprodurre in ogni particolare.

– Allora, venite? – insistette l’uomo indicando i suoi compari. – Quelli cominciano a litigare.

Laplace si alzò, pensando che anche essere giudice in quel tribunale da pantomima faceva parte del suo tirocinio nella Grande Parodia.

– Oh, ecco! – lo accolse Jerôme battendo le mani. – Diteglielo voi, a questi ignoranti, perché sono io che merito il posto di Marat.

– Ignorante sarai te, – si inseri un altro. Poi, rivolto a Laplace, si batté la mano sul petto: – Io conosco a menadito tutti i suoi discorsi, li ho letti sul «Moniteur», mentre quello stordito non sa manco leggere.

– A chi hai dato dello stordito?

– Secondo me dovreste farlo tutti e tre, – sentenziò Laplace senza alzare la voce.

– Come dite? – domandò il terzo pretendente, cercando con le mani di zittire gli altri due.

– Dico che secondo me questo funerale ha bisogno di tre Marat. Di Capgras, perché somiglia al defunto. Di voi, –disse indicando il secondo, – perché ne conoscete i discorsi, e infine di voi perché...

– Perché ho la madre svizzera come lui, – si affrettò a dire il terzo.

– Ebbene, – concluse Laplace, – non c’è nulla di strano. Marat era un grand’uomo: tanto grande che per interpretarlo servono almeno tre attori.

I folli rimasero ammutoliti, come sorpresi da una verità superiore.

– Ma certo! – gridò alla fine Molière alzando le braccia, prima che Marat–quello–vero trovasse modo di obiettare. – Ma certo! – ripetè mentre si lanciava con entusiasmo negli ultimi preparativi del rito funebre.

In breve, tre pagliericci coperti da lenzuola vennero sistemati al centro di Piazza dei Furiosi. La scena era assai spoglia, ma Molière spiegò la mancanza di addobbi con il bisogno di ricordare la nobile indigenza, lo stile di vita essenziale dell’Amico del Popolo. E tutti si trovarono d’accordo.

I sorveglianti, ai quattro angoli del cortile, osservarono i tre defunti sdraiarsi sui feretri. Il sole era alto sui tetti.

Una trentina di alienati si dispose in cerchio tutt’intorno, mentre un gruppo molto più numeroso formava un secondo girone a qualche passo di distanza. Rare voci sparute si alzavano sopra le teste.

Laplace non aveva mai visto i matti di Bicêtre rimanere ordinati e silenziosi per un tempo così lungo. Soltanto uno di loro, a intervalli regolari, esplodeva con la bocca un colpo di cannone. Pum!

A un segnale di Molière, il popolo di San Prisco intonò La Marsigliese. Il canto mori di eutanasia dopo un paio di strofe.

– Ogni lacrima che i patrioti versano sulla tomba di quest’uomo illustre, sarà la fonte degli eroi che dovranno un giorno vendicarlo!

II matto che interpretava David accompagnò le ultime parole con una smorfia dovuta allo sforzo di ricordare l’intera frase. Molière lo guardò soddisfatto. Doveva aver faticato non poco per ficcargli in testa quella citazione, pensò Laplace. Il drammaturgo cercò un volto tra quelli che attorniavano i feretri e con un cenno del capo lo invitò a intervenire. L’uomo si schiari la gola e con voce di marmo declamò:

– Come Gesù Cristo, Marat amava il popolo e soltanto il popolo. Come Gesù, Marat combatteva i nobili, i preti, i ricchi e i furbastri. Come Gesù, egli conduceva una vita povera e frugale. Come Gesù Cristo, anche Marat si dimostrerà immortale!

Un applauso si alzò da decine di mani. L’oratore si esibì in un inchino poco adatto alla circostanza. Laplace intuì che la tenuta dei folli era ormai al limite, ma Molière non aveva ancora terminato. Avanzò tra i finti cadaveri e su ciascuno di essi depose un cartello, con l’epitaffio riportato da tutti i giornali: «Qui riposa Marat, l’Amico del Popolo, ucciso dai nemici del popolo». Quindi domandò silenzio con le braccia alzate e prese un profondo respiro.

Oltre le teste dei folli, oltre i visi degli inservienti pronti a intervenire, Laplace scorse la figura del governatore Pussin, accompagnato da un uomo che non conosceva e da un altro che tutti, a Bicêtre, conoscevano bene: l’economo Hagnon, il gran capo, colui che dirigeva l’intero ospizio.

– Cittadini, – esclamò Molière in tono maestoso, – io non penso che il nome di Marat debba essere accostato a quello di Gesù Cristo, poiché per credere nella resurrezione del crocifisso occorre un atto di fede, mentre per inverare quella dell’Amico del Popolo è sufficiente un atto di volontà. Qualcuno ha chiesto che le sue spoglie vengano accolte nel Pantheon: ma a parte Lepelletier, non mi pare che in quel luogo riposino veri uomini virtuosi. Forse che sarebbe un onore per Marat starsene accanto a un Mirabeau, a un uomo che meritò la sua reputazione con mille scelleratezze? No, repubblicani. Io vi dico che se Marat non verrà accolto nel Pantheon è perché il suo posto è nel cuore di tutti i rivoluzionari. Nella bara che oggi noi salutiamo è custodito il suo corpo, ma lo spirito vive, è già in mezzo a noi, e spetta soltanto a noi accoglierlo e imitarne la maschia energia. Marat non è morto, cittadini, perché chi lo ha colpito non voleva uccidere un uomo: voleva uccidere la Repubblica. E la Repubblica non morrà, finché lo spirito di Marat sarà in tutti noi e tutti noi saremo Marat.

Dall’ovazione che segui quella tirata, Laplace senti emergere la voce di Pussin.

– Va bene, va bene. Basta così.

Il governatore batteva le mani, con un atteggiamento a mezza via tra l’applauso e il gesto del villico che sospinge le galline nel pollaio.

Intanto i sorveglianti, con fare più deciso, indirizzavano il popolo e i deputati nei loro alloggiamenti, in attesa dell’ora di cena.

Laplace si accodò alla mandria, le mani intrecciate dietro la schiena, ma prima di varcare la soglia del dormitorio, si accorse che Molière chiamava il suo nome.

Si voltò e vide il folle in compagnia di Pussin, dell’economo e dello sconosciuto. A grandi sbracciate, lo invitava ad avvicinarsi.

Laplace li raggiunse.

– Stavo raccontando al governatore, – disse Molière eccitato, – che senza il vostro aiuto non saremmo mai riusciti a mettere in scena il funerale.

– La rappresentazione è stata di vostro gradimento? – domandò Laplace rivolto ai visitatori.

– Diciamo che l’ho apprezzata come spettacolo d’ordine, – commentò l’economo. – Però non credo che i funerali di un grand’uomo siano un buon soggetto per una recita. Si finisce per scadere nella farsa.

Molière, punto sul vivo, allargò le braccia e attaccò a giustificarsi.

– Ho seguito i resoconti dei quotidiani, – piagnucolò.

– Se c’è qualcosa di farsesco in quanto avete visto, lo si deve ai cronisti.

– I quotidiani parlavano di tre Marat? – domandò l’economo, con l’aria di chi si rivolge a un bimbo che neghi l’evidenza.

– Quella è stata un’idea sua, – si difese il folle.

Gli occhi di tutti seguirono il dito puntato di Molière e Laplace se li ritrovò addosso.

– Gli attori litigavano per chi dovesse impersonare Marat, – spiegò. – Io ho assecondato i loro desideri trovando il modo di farli convivere. Cosi, invece di una rissa, abbiamo avuto una scena di teatro.

L’economo bofonchiò qualcosa, ma si limitò a quello. Pussin si affrettò a fare le presentazioni tra i due uomini che ancora non si erano mai incontrati. Era la prima volta che gli capitava di compiere un gesto simile tra un internato e un visitatore, e il piccolo rituale risultò alquanto goffo.

– Dottor Pinel, questo è l’ospite di cui vi parlavo: il cittadino Laplace. Cittadino, questi è il dottor Pinel, che presto potrebbe esercitare il suo mestiere fra queste mura.

Il dottore strinse la mano di Laplace e gli domandò come avesse fatto a mettere d’accordo i tre pretendenti al ruolo di Marat.

Laplace offrí un riassunto dell’accaduto, e al termine si trovò a tu per tu con una domanda più sofisticata.

– Siete davvero sicuro che il teatro sia meglio di una rissa?

– Di certo lo è sul piano della disciplina, – rispose senza scomporsi. – Ma credo lo sia anche come cura. Aristotele sosteneva che la tragedia serve a purificarci dalle passioni. È il termine che usa per questa purificazione, catarsi, è lo stesso usato da Ippocrate nei suoi trattati di Medicina, per indicare l’evacuazione di elementi dannosi.

– Ben detto, – annuí Pinel. – Voi però dite di aver assecondato i desideri di tre vostri compagni. Chi vi dice, al contrario, che quei desideri non vadano contrastati?

– Ho osservato il governatore Pussin. Egli preferisce assecondare che reprimere. Le rappresentazioni del qui presente cittadino Benoìt, detto Molière, sono un esempio del suo modo di procedere.

– A dire il vero io... – attaccò Pussin, ma non si sforzò nemmeno di terminare la frase, perché nello stesso momento il dottor Pinel esprimeva la sua opinione con ben altra sicurezza.

– Per assecondare un desiderio, bisogna conoscerlo. E conoscere i desideri altrui non è affare da poco. Ci sono uomini che passano la vita a domandarsi cosa vogliono davvero. Chi vi dice che i vostri tre Marat desiderassero recitare? Forse volevano solo litigare, e voi glielo avete impedito. Forse con il loro litigio vi stavano chiedendo di sottrarli alla recita, e voi invece ve li avete trascinati. Il desiderio non è una preda semplice da cacciare.

E così dicendo, il dottor Philippe Pinel augurò agli internati una buon giornata e si allontanò insieme all’economo e al governatore Pussin, lasciando impressa, nell’animo di Laplace, una sensazione che egli non provava più da molti mesi.

Quella di aver incontrato una mente capace di stare al passo con la sua.

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