I.

Le urla si propagarono a catena per tutto il padiglione. Ognuno le ripeteva, le amplificava, trasmettendole un poco più in là. Quando raggiunsero Laplace, questi balzò dalla branda e guadagnò il corridoio, mosso da un presentimento orribile. Da quando aveva ricominciato a magnetizzare, le sue percezioni erano amplificate, esaltate dall’attività stessa, e ora in lui montava la sensazione che qualcosa di irreparabile si fosse compiuto.

Risali la catena delle urla, passando davanti alle porte degli alienati che sbraitavano. Più si avvicinava all’epicentro, più il presentimento si faceva forte e lo istigava a correre. La corsa si interruppe sulla soglia del dormitorio, davanti alla mole dell’inserviente tarchiato con il naso all’ingiù, che impedi a Laplace di proseguire.

– Lasciatemi passare! Cos’è successo? – intimò Laplace.

L’espressione stolida dell’uomo non mutò, come avesse parlato al vento.

Laplace lo fissò negli occhi, quindi gli posò le dita di una mano sulla fronte e quelle dell’altra sul gomito.

– Fammi passare, – disse in tono fermo.

L’uomo si spostò di lato.

Oltre la soglia del refettorio, la scena che si parò davanti agli occhi di Laplace lo lasciò sconcertato.

Prima di tutto vide la matassa di riccioli biondi di Malaprez. Si agitava, come una criniera, in mezzo a tre inservienti nerboruti. Le urla provenivano dalla caverna nera aperta nella faccia paonazza. Come se Malaprez non fosse più in grado di chiudere la bocca, i suoni uscivano continui, fino a quando non perdeva il fiato e doveva fermarsi per poi ricominciare. Uno degli energumeni lo teneva bloccato contro il muro con il castigamatti, un semicerchio di metallo attaccato a un lungo manico di legno. Gli altri due gli avevano infilato la camicia di forza e stavano legando le maniche dietro la schiena. Laplace ebbe l’istinto di intervenire, ma si fermò, capendo che rischiava d’essere travolto.

Poi notò l’uomo a terra. Era steso sulla schiena, il viso reclinato verso di lui, gli occhi chiusi. Lo riconobbe: era Cabot, il folle che Malaprez aveva neutralizzato in cortile tempo prima, rimediando una badilata sulla spalla. Era stato lui, Laplace, a ordinargli di farlo.

Su Cabot era proteso il governatore Pussin. Laplace lo raggiunse.

– È morto? – chiese.

Pussin rispose senza guardarlo in faccia.

– No.

Laplace fece qualche passo verso Malaprez, che nel frattempo era finito a terra, sotto il peso dei due inservienti.

– Lasciatelo! – disse, provando a sovrastare le urla disperate di Malaprez. – Lasciatelo a me!

Cercò lo sguardo di Malaprez, ma il giovane aveva gli occhi spiritati, la bava alla bocca, e perdeva sangue da un orecchio; non c’era verso di tentare una magnetizzazione. Laplace si risolse a provare lo stesso, ma sentì una presa forte sulla spalla che lo tirava via.

Si voltò con uno scatto di rabbia, solo per trovarsi faccia a faccia con Pussin.

– Voi non dovete stare qui, – intimò il governatore. – Tornate nel vostro alloggio.

– Posso calmarlo, – protestò Laplace. Ma la presa di Pussin si fece più forte, si senti tirare lontano e la rabbia montò fino a soverchiarlo. – Posso calmarlo, vi dico!

Il suo urlo si mescolò a quello di Malaprez e vide avvicinarsi l’inserviente dal naso all’ingiù. Smise di opporre resistenza e si lasciò spingere verso la parete, dove una grossa mano lo tenne bloccato, premendogli sul petto.

Osservò Malaprez che veniva trascinato via di peso. Quindi fu il turno di Cabot, ancora tramortito.

Solo allora Laplace tentò di attirare l’attenzione di Pussin.

– Volete dirmi cosa è successo, in nome di Dio?

Il governatore si concesse un sospiro, che parve dargli assai poco sollievo.

– Cabot ha aggredito Malaprez. Immagino volesse vendicarsi. Lo ha colpito alla testa con un mattone. Deve essere riuscito a grattarlo via dalla parete della cella. Malaprez ha reagito e ci è mancato poco che lo ammazzasse.

– Dunque per difendersi... – disse Laplace.

Pussin guardò verso la porta che aveva inghiottito i due alienati. ' *

– La responsabilità è solo mia –. Poi si rivolse all’inserviente: – Accompagnalo al suo alloggio.

Mentre lo riportavano indietro, Laplace disse ancora qualcosa.

– Fatemi parlare al nuovo dottore.

Non ottenne risposta. Pussin si limitò a guardarlo allontanarsi, inespressivo, le spalle curve.

Il padiglione sembrava essersi acquietato. Passando accanto alla cella di Malaprez, Laplace sbirciò attraverso la finestrella e lo vide, legato e imbavagliato. Produceva un muggito sordo, si agitava e sbatteva i piedi contro il muro. Mesi di lavoro andati in fumo, pensò Laplace. L’inserviente lo spinse avanti ed ebbe l’istinto di girarsi di scatto e colpirlo.

Si trattenne e poco dopo si ritrovò sulla branda. Prima che la porta si chiudesse, disse:

– Riferite che voglio un colloquio con il dottor Pinel.

Non ottenne risposta.

Trascorse una notte agitata, scandita dall’ululato basso e continuo di Malaprez, nella cella accanto. Si addormentò soltanto poco prima dell’alba e quando si svegliò, a colpirlo fu il silenzio. Uscí in fretta dall’alloggio. Lo spioncino di Malaprez era aperto e potè sbirciare dentro. La cella era vuota.

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