– Buongiorno, cittadino Laplace. Prego, sedete.
Philippe Pinel stava scrivendo con una lunga penna d’oca su un taccuino fitto di appunti. Sul naso – un naso che puntava in basso, non proprio ricurvo, ma certo non elegante –aveva piccoli occhiali a molla, che appoggiò con delicatezza sul tavolo, non appena ebbe terminato di scrivere.
– Avete chiesto di vedermi, dunque.
Laplace non parlò subito, si diede qualche istante per studiare la fisionomia del dottore. Il loro primo incontro era stato troppo fortuito e affollato perché potesse inquadrarlo bene, mentre ora, nella quiete e nella solitudine dello studio, poteva cogliere ogni inflessione della voce, ogni ruga del viso, e soprattutto l’espressione. L’ampia fronte, gli occhi tondi e il lieve sorriso gli davano un’aria amichevole. Eppure dietro quell’apparenza c’era qualcosa che Laplace, senza sapere bene perché, avrebbe paragonato al nocciolo dentro un frutto maturo. Qualcosa su cui, con un morso troppo disinvolto, ci si sarebbe potuti rompere i denti.
– Riguarda Malaprez, – disse.
Pinel non batté ciglio.
– L’avete fatto trasferire in un’altra ala dell’ospedale, –aggiunse Laplace.
– In effetti è così.
– Posso chiedervi perché?
– Per allontanarlo da voi.
La risposta raggiunse Laplace come una stilettata e capi che le sue impressioni erano giuste. Dunque ecco un avversario. «Alla buon’ora», sussurrò la voce della mente, ma seguitò a intimargli di stare attento.
– Capisco, – disse con una flemma forzata. – Forse non vi hanno informato del fatto che sono stato io a recuperare Malaprez ai modi civili. Io l’ho fatto rinsavire.
Si zittí, in attesa della replica, che non tardò ad arrivare.
– Il governatore Pussin mi ha aggiornato sul suo caso, si. E anche sul vostro Il tono non era minaccioso, non ne aveva bisogno. – È vero che avete ammansito Malaprez, –riprese il dottore. – Ma non lo avete curato, tantomeno lo avete guarito.
– Non è il risultato pratico che conta? – domandò Laplace. – Si esprimeva a grugniti e adesso parla.
– Per la verità, dopo l’aggressione è tornato ai grugniti
Il tono di Pinel era vagamente paternalistico. – Lo avete scatenato contro un altro paziente, e questo gli è già costato una brutta lussazione. Quando quest’ultimo si è vendicato, cercando di sfondargli il cranio con un mattone, Malaprez è ripiombato nello stato precedente al vostro... come devo chiamarlo? Intervento? Trattamento?
Laplace congelò la rabbia dentro di sé, capendo che Pinel tentava di provocarlo, perché sapeva. Si, lui sapeva.
– Lasciate che lo incontri. Lo riporterò alla normalità in poco tempo. Potrete constatarlo voi stesso.
Il sorriso di Pinel si fece bonario e ancora più irritante.
– Non posso accontentarvi. Malaprez è un ospite di questo ospedale e come tale è sotto la mia responsabilità. Non credo che gli abbiate fatto del bene. Come non l’avete fatto ai vostri Marat.
– Voi negate l’evidenza, – sibilò Laplace stirando un sorriso nervoso.
– E voi siete un ipocrita, cittadino Laplace, – ribattè Pinel senza astio. – I trattamenti magnetici ai quali sottoponete queste menti semplici sono utili a suggestionarle, forse anche a soggiogarle a una forte personalità come la vostra. Il mio compito è invece guarirle. Soltanto guarendo dal male l’uomo può essere libero.
Ecco, pensò Laplace, i giochi sono scoperti, le carte sul tavolo. Non c’era più nulla da celare, si trovava davanti a una volontà forte quanto la propria. Di fronte a sé aveva il Nemico. E meritava un’ultima sentenza.
– Non tutti possono essere guariti. Il male è una realtà eterna, – disse.
– Nondimeno, combatterlo con ogni mezzo necessario è mio dovere, – replicò con la stessa flemma Pinel. – Il mio, non il vostro, – aggiunse. – Io sono il medico, voi siete un paziente. Peraltro, mi risulta che siate entrato qui di vostra spontanea volontà. Dunque volontariamente potete anche andarvene, se non approvate le mie scelte terapeutiche o la mia filosofia.
Laplace serrò la mandibola. Si alzò e accennò un inchino, quindi lasciò la stanza.