– Voi siete Léo Modonnet.
Léo, seduto al tavolo della Gran Pinta, continuò a mangiare senza alzare gli occhi dal piatto di fagioli. Sapeva bene chi era l’uomo che si era seduto davanti a lui. Lo sbirro del foborgo, il ciabattino Treignac. Alle sue spalle c’era il ragazzino, il figlio di Marie Nozière, con un’aria talmente angelica che avrebbe potuto infinocchiare chiunque.
– Dovrei sbattervi dentro, – disse Treignac.
– Per cosa? – domandò Léo in tono indifferente, mentre si versava un bicchiere di vino.
– Aggressione. Tentato omicidio.
Léo seguitò a non battere ciglio. Sorseggiò il vino.
– Con quali prove?
Nemmeno lo sbirro era tipo da scomporsi facilmente. *
– Il foborgo vi copre, – disse Treignac. – Finché gli fate un favore.
Léo valutò di potersi concedere una lieve stoccata.
– Mai scontentare il pubblico.
Nessuna reazione. Gli altri avventori si tenevano alla larga, mentre Férault sbirciava dal bancone fingendo di asciugare i boccali della birra.
– Io però non faccio teatro. Sono Treignac. E vado per le spicce.
– Dunque la faccenda è personale? – domandò Léo con l’aria vaga, masticando ancora un boccone.
– Anche, – rispose laconico Treignac.
Léo annuí. Cominciava a capire.
– Di cosa o chi stiamo parlando?
– Marie Nozière, – rispose il poliziotto. – Se vi vedo ancora girare attorno a casa sua, non vi arresto, vi faccio sparire. L’ultimo gecco che quella donna deve avere intorno è uno come voi.
Léo si decise a guardarlo negli occhi.
– Non mi credete un buon patriota?
– Vi credo un profittatore, talequale quelli che avete conciato.
Léo scosse la testa. Si sentiva deluso dall’ottusità di quello sbirro, la stessa di Nogaret, il commissario che lo aveva arrestato due volte e non capiva la sua arte. E pensare che costoro credevano di servire la rivoluzione.
– Voi non capite, – disse sconsolato.
– E invece mi sa di si, – ribattè secco Treignac. – Siete avvertito, – aggiunse, prima di alzarsi.
Léo si accorse che Férault mesceva birra per tutti.
– Offre la casa! – disse l’oste, sollevando un boccale. – Brindiamo allo spirito di Marat!
Gli avventori lo imitarono in coro.
Treignac si guardò attorno, come a fissarsi le facce nella mente, ma fini per rivolgersi all’oste.
– In campana anche tu, Férault.
Dopodiché puntò l’uscita e passò senza che nessuno fiatasse.
Léo si sforzò di sorridere, a dimostrare che non era intimidito. In realtà, cercava rassicurazione, perché quello che aveva visto negli occhi dello sbirro non gli era piaciuto per niente. Aveva il sentore che se quel Treignac avesse saputo cos’era successo tra lui e Marie, gli avrebbe tagliato le palle per darle in pasto ai sorci della Senna.
Non era una scena da dormirci sonni tranquilli. Ma del resto, pensò Léo, i sonni tranquilli si addicevano alle comparse, non ai primattori che reggono sulle spalle l’intera commedia. Sollevò il bicchiere e propose un altro brindisi.
Lettera del dottor
PHILIPPE PINEL
al fratello
Parigi, 20 luglio 1793
Se ho tanto tardato, mio caro fratello, a darti notizie, la causa sono le mie numerose occupazioni. Mi conosci abbastanza per non dubitare dei miei sentimenti verso di te o provare inquietudine circa i motivi del mio silenzio.
Qui siamo, come sempre, nelle più grandi ambasce, tanto per le nostre divisioni intestine che per l’esito della guerra; ma gli uomini illuminati temono meno quest’ultimo che i nostri dissensi, causati da una diversità d’opinioni senza fine.
Ah, quanto devi rallegrarti di essere lontano da questo gorgo spaventoso, che minaccia d’inghiottire tutto ciò che gli si presenta. Se tu potessi, come me, formarti un’idea delle perfide astuzie, dell’audacia impudente e sfrenata con la quale il crimine si mostra nei momenti di disordine e di rivoluzione, saresti dissuaso una volta per tutte dall’immischiarti negli affari della politica. Nei primi tempi della rivoluzione, ebbi anch’io questa velleità, ma allorché non domandavo altro che la giustizia e il bene del popolo, la mia vita è stata così in pericolo che ho finito per concepire un profondo orrore per i club e le assemblee: da allora ho sempre rifuggito qualunque incarico pubblico che non riguardi la mia professione di medico.
Purtroppo, anche su quel versante, da qualche tempo non posso dirmi soddisfatto. La medicina è senz’altro una cosa utile, ma se tu conoscessi quanti disagi derivano dalla sua pratica, quando si è costretti a farne una fonte di lucro, certo non rimpiangeresti di averla trascurata per diventare prete. Da qualche tempo, per guadagnarmi da vivere, devo far visita ai pazienti della casa di cura Belhomme, e il proprietario, pur non essendo altro che un vetraio facoltoso, pretende di organizzare e dirigere ogni aspetto, al punto che non mi è possibile applicare i rimedi che vorrei, ma debbo limitarmi a fornire consulenze, rispetto alle quali il padrone si riserva di agire come meglio crede.
Per questo, ho deciso di concorrere per il posto di medico in capo all’ospizio di Bicêtre, posto che verrà istituito dopo l’estate e per il quale l’amico Cabanis ha garantito di potermi presentare. Tu di certo conosci il nome di quel luogo come sinonimo di atrocità, tanto quella quotidiana descritta da Mercier, quanto quella straordinaria del settembre scorso e dei massacri occorsi tra le sue mura.
Per parte mia, ho visitato Bicêtre una volta soltanto, quando assistetti alla prova della ghigliottina su un paio di cadaveri, e in quell’occasione la sua fama spaventosa mi parve immeritata. Inoltre, a quanto mi dicono, ci sono stati ulteriori, sensibili miglioramenti anche negli ultimi due anni. Credo che l’istituzione di un posto di medico residente rientri in una più ampia opera di risanamento del luogo, che certo si può ascrivere agli effetti benefici della rivoluzione. Ma per non basarmi soltanto sulla voce di alcuni amici, e per verificare di persona lo stato in cui versa la struttura, ho fissato per domani un sopralluogo più attento, insieme all’economo e ai sorveglianti delle varie sezioni. Quel che vedrò e la decisione che ne seguirà saranno dunque l’oggetto della mia prossima lettera.
Abbraccia nostro padre.
Il tuo buon fratello,
Philippe Pinel