4.

Tre giorni dopo, al mercato di Sant’Antonio, le merci più ambite non erano quelle stivate dagli accaparratori nei loro magazzini, bensì le notizie circa la sorte di uno di loro: Pierre Solin detto Pelledoca.

– Ma la testa? Gliel’ha rotta la testa?

– E l’occhio? È vero che l’ha accecato?

– Sì,.ci ha piantato dentro il becco!

Léo coglieva le voci, zoppicando a testa bassa tra i banchi di frutta e di granaglie, e intanto meditava sulle differenze fra il teatro vecchio e quello nuovo, quello vasto quanto il mondo, al quale i parigini parevano abituarsi con naturalezza, come se non fosse in corso una grande trasformazione del gusto e dell’arte.

Poche ore prima, nel cuore della notte, un attore di rango aveva recitato per loro nel ruolo di Scaramouche.

– Ma Scaramouche lo stesso del cannone?

A differenza di quanto accadeva nel vecchio teatro, la pièce era andata in scena senza un pubblico. Quest’ultimo, per paradosso, andava radunandosi a spettacolo concluso, e cercava di ricostruire, sulla base di voci e di indizi, quel che era accaduto, per goderselo nel teatro della mente.

– Dice che l’ha aspettato sotto casa.

– No, è entrato dalla finestra.

– E poi gli ha mollato una randellata, bam!

– E gli ha detto che a ’sto giro gli è pure andata bene, ma se continua ad accaparrare, la prossima volta, zac!

L’attore, benché consapevole del proprio successo, non si offriva agli applausi e agli evviva, ma piuttosto si sottraeva, evitava di mettersi in mostra. Nonostante questo, c’era chi lo riconosceva e, senza dirgli niente, gli porgeva omaggi: una pagnotta, una forma di caprino, qualche pera ché col caprino è buona...

– Ma è vero che gli ha cavato un occhio, a quel porco di Solin?

Léo dovette trattenersi dall’intervenire, perché quella domanda riguardava il clou della rappresentazione.

Aveva studiato le mosse dell’accaparratore per due giorni e due notti. Aveva raccolto notizie con discrezione. La vita dell’uomo era scandita fra casa e bottega, senza distrazioni presso qualche signorina oppure in osteria. Casa e bottega, per di più, erano quasi lo stesso luogo, piano basso e piano superiore della stessa palazzina. Poco dopo il tramonto, Solin era solito chiudere l’ingresso principale del negozio, uscire sul retro, imboccare una scala e lasciarsi inghiottire dalle mura domestiche. Quello era l’unico momento della giornata nel quale lo si poteva cogliere da solo, al buio e allo scoperto. Per Scaramouche non c’erano state grandi alternative: nel nuovo teatro, gli attori non potevano sempre scegliere orario e luogo della rappresentazione. Avvolto nel suo nuovo costume cucito alla bell’e meglio, Léo si era nascosto nell’ombra del sottoscala ed era balzato sull’accaparratore brandendo un grosso bastone. Ma il gecco bastardo si era dimostrato più forte e agile del previsto: aveva incassato la legnata sulla spalla e aveva brancato l’assalitore in una presa robusta.

I due erano rotolati a terra, il nuovo costume aveva perso pezzi, Léo s’era ritrovato con le braccia bloccate e una caviglia storta, ma il suo fiuto per l’improvvisazione lo aveva salvato: il naso, il naso di cuoio della maschera che indossava. Un rostro acuminato. Un’arma segreta. Lo aveva ficcato nell’orbita destra del cittadino Solin. Questi, reso guercio dalla mossa a sorpresa, aveva dovuto allentare la morsa e il bastone di Scaramouche gli aveva spento gli ultimi ardori.

Riassaporando la scena e ormai carico di doni, Léo claudicò fino alla Gran Pinta.

Di fianco alla porta, seduto sul muretto, il figlio della sarta giocava a dadi con due coetanei. Levò il muso dai numeri e Léo lo salutò alzando il mento, con un movimento indeciso che si poteva anche prendere per casuale. Infatti il ragazzino non parve accorgersene e tornò a concentrarsi sui lanci.

Dentro, i tavoli erano per lo più vuoti, a parte un paio di ceffi in compagnia di altrettanti fiaschi. Non era ancora l’ora di pranzo, gran parte degli avventori era sul lavoro. Léo si era diretto li in cerca di un luogo tranquillo dove riflettere, lontano dagli sguardi di strada.

Si cercò un buco in fondo alla prima sala e andò a sedersi, indeciso se ordinare birra o vino. Incertezza che non fece in tempo a sciogliere, poiché l’oste si presentò con una caraffa di rosso.

– Offre la casa, – disse soltanto l’uomo, con la sua voce stridula, prima di tornarsene dietro il banco.

Léo pensò che nel vecchio teatro un attore del suo calibro poteva essere espulso dalla compagnia e perdere uno stipendio sicuro. Nel nuovo teatro, invece, il pubblico ti pagava in natura e per lo meno non morivi di fame.

Le sorti dell’umanità gli apparvero quindi orientate al progresso.

Poi afferrò il cucchiaio e cominciò a mangiare.

Estratto da

APPELLO ALLA CONVENZIONE NAZIONALE

PRONUNCIATO DA JACQUES ROUX

(25 giugno 1793, anno II della Repubblica francese)

Delegati del popolo francese,

la libertà non è che un vano fantasma quando una classe d’uomini può affamare l’altra impunemente. L’uguaglianza non è che un vano fantasma quando il ricco, grazie al monopolio, esercita un diritto di vita e di morte sul suo simile. La Repubblica non è che un vano fantasma quando la contro–rivoluzione opera, di giorno in giorno, attraverso il prezzo delle derrate, che tre quarti dei cittadini non possono permettersi senza versare lacrime.

Oggi che il santuario delle leggi non è più insozzato dalla presenza dei Gorsas, dei Brissot, dei Barbaroux, dei Girard; oggi che questi traditori, per scampare al patibolo, sono andati a nascondere, nei dipartimenti che hanno fomentato, la loro nullità e infamia; oggi che la Convenzione nazionale è restituita alla sua dignità e al suo vigore, e non ha bisogno, per operare il bene, che di volerlo; noi vi supplichiamo, in nome della salvezza della Repubblica, di colpire con un anatema costituzionale l’aggiotaggio e gli accaparramenti, e di decretare, come principio generale, che il commercio non consiste nel rovinare, disperare, affamare i cittadini.

Ma come! Le proprietà dei farabutti sono forse più sacre della vita dell’uomo? La forza armata è a disposizione del corpo amministrativo; perché le sostanze non dovrebbero esserlo per la requisizione? La libertà di commercio è il diritto di usare e far usare, e non il diritto di tiranneggiare e impedire l’uso.

Il popolo vi ha dato prova, soprattutto nelle giornate del 31 maggio e del 2 giugno, che vuole una libertà tutta intera. Dategli in cambio del pane, e una legge.

È vero: voi avete decretato una tassa da un miliardo sui ricchi: ma se non sradicate l’albero dell’aggiotaggio, se non mettete un freno all’avidità degli accaparratori, i capitalisti, i mercanti, già dall’indomani piglieranno quella cifra dai sanculotti, grazie al monopolio e alle concussioni: e così non è l’egoista che voi colpite, ma il sanculotto.

Ma i farabutti non ridurranno in schiavitù un popolo che vive di ferro e libertà, di privazioni e sacrifici. Soltanto i partigiani della monarchia preferiscono le antiche catene e i tesori alla Repubblica e all’immortalità.

Deputati della Montagna: no, no, voi non lascerete la vostra opera imperfetta. Voi getterete le basi della prosperità pubblica; voi consacrerete come principio generale la repressione dell’aggiotaggio e degli accaparratori; voi non darete ai vostri successori l’esempio terribile della barbarie degli uomini forti sui deboli, del ricco sul povero; voi non concluderete la vostra carriera con ignominia.

Viva la verità, viva la Convenzione nazionale, viva la Repubblica francese.

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