I.

Non si poteva dire una piazza prestigiosa.

Léo considerò l’aspetto delle case e l’abbigliamento dei passanti, la strada dissestata e le geometrie del luogo.

A ben guardare, non era nemmeno una piazza: piuttosto un crocicchio, abbastanza largo da ospitare nel mezzo un’aiuola fangosa, dove tre ambulanti vendevano fiori, cianfrusaglie, refurtiva da borsaioli. Léo aveva domandato il permesso di allestire li il suo scarno palcoscenico e quelli, senza entusiasmo, gli avevano fatto segno di accomodarsi, ché tanto per cacciarlo via c’era sempre tempo, e non valeva la pena sprecarlo in anticipo con lunghe discussioni.

Mentre si preparava per lo spettacolo, Léo non potè fare a meno di rimpiangere Pontenuovo, se non come dimora, per lo meno come teatro.

Neppure quello era una vera piazza e anche li si recitava in compagnia di mercatanti dall’aria truce, ma in compenso il luogo aveva una sua nobiltà, era un monumento insigne, il ponte più lungo di tutta Parigi, attraversato in ogni momento da un viavai di popolo che era specchio dell’intera città: ricchi e poveracci, rivoluzionari veri e farlocchi, zotici e uomini di spirito. Lo aveva abbandonato a malincuore. Girava voce che la cagnaccia lo stesse cercando, cioè, non cercava proprio lui, Léo Modonnet, ma il mestatore in maschera, il furbetto che s’era arrogato il diritto di usare un cannone che apparteneva al popolo.

Dov’era in quel momento, sulla via di Chiarentone, nel bel mezzo del foborgo di Sant’Antonio, non passavano che sanculotti, lavandaie, megere, villici ignoranti e uno stuolo di ubriachi dalla taverna li vicino.

La Gran Pinta, si chiamava, e l’oste era un galantuomo, una di quelle rare persone che sanno comprendere le ragioni dell’arte.

Per molte notti di fila, nonostante il timore di essere arrestato, Léo non aveva mai dormito al coperto. Colpa della tirchieria e dell’insensibilità di osti e locandieri. Gli avventori, bontà loro, erano sempre abbastanza generosi, e in cambio di qualche battuta greve, qualche imitazione e un paio di filastrocche, finivano sempre per offrirgli un piatto di zuppa e un bicchiere di vino. Ma al momento di domandare al proprietario il conforto di un letto, dopo aver intrattenuto la clientela per l’intera serata, non c’era verso di ottenere un minimo di sostegno, e ogni volta Léo si ritrovava col culo per terra, costretto a fare della strada il proprio giaciglio.

L’oste Férault, invece, gli aveva messo a disposizione un pagliericcio, una coperta e il cortile della Gran Pinta con tanto di pozzo ove sciacquarsi e bere a piacimento. Per questo Léo, ormai da tre notti, si era trasferito in pianta stabile – cioè, non proprio stabile, ma meno instabile di prima – a Sant’Antonio. Aveva dormito sodo, ritemprato le membra, e insieme al sonno aveva ritrovato lo slancio per tornare sulla piazza, e chissenefotte se non era proprio una piazza vera.

Aveva sentito parlare i garzi del luogo, e pensava di conoscere la formula giusta per divertire il pubblico del foborgo: caricature di nobilardi, secchiate di merda sui reazionari, incularelle tra preti, botte da orbi agli accaparratori.

Niente di più facile, si fece coraggio Léo, appoggiando di fronte a sé una ciotola di legno che aveva preso in prestito dall’osteria. Il berretto che usava di solito per raccogliere il denaro se n’era andato in cambio di due libbre di mele, mentre il resto della sua scenografia – ovvero il cartello inneggiante alla Repubblica – era rimasto abbandonato a Pontenuovo, unico ricordo del suo passaggio. Gli restava, per fortuna, il minimo indispensabile a recitare: il corpo, la voce e un costume di scena.

Un capannello di una decina di individui si schierò sullo spiazzo in attesa dello spettacolo. Altri osservavano distanti, dagli usci di case e botteghe, come se a farsi più vicini si corresse il rischio di pagare qualcosa.

Léo prese fiato, si presentò al pubblico e annunciò un monologo intitolato La marchesa ha rotto un piatto, col quale era certo di conquistarsi i favori degli astanti. Impossibile trattenere le risate di fronte a Léo Modonnet che, anche senza l’ausilio di un travestimento femminile, interpretava un’aristocratica rimasta senza servitù e obbligata ad arrangiarsi.

Eppure la gente non reagiva alle battute, non rideva, non applaudiva i passaggi più riusciti. Il drappello cresceva, altroché, c’erano venti, forse trenta persone schierate là davanti, ma lo osservavano in maniera inconsueta, parlottavano tra loro, scuotevano le testacce pidocchiose, si davano pacche e colpi di gomito. Il tutto senza alcuna relazione con quanto andava recitando.

Léo tagliò corto. A quanto pareva la marchesa non era il soggetto giusto. Aveva sentito dire che i veri rivoluzionari, i caporioni della Montagna, non apprezzavano più le caricature oscene degli aristocratici, poiché, dicevano, la vecchia Francia era morta e sepolta e non si doveva resuscitarla nemmeno per sputarci sopra. Forse per questo i bravi sanculotti, sulla pubblica piazza, si sforzavano di non ridere a quelle battute che intorno al tavolo di un’osteria, tra amici e compagni di bevute, li facevano invece sbellicare.

Del resto, pensò Léo, altro che piatti rotti! Oramai gli aristocratici erano tutti in galera, e chi non era in galera era espatriato a Coblenza, e chi non era in galera né a Coblenza era in compagnia dei vermi.

Terminò con un inchino e presentò un numero da acrobata, dove in realtà fingeva di essere un inetto buffone, per riuscire perfettamente nell’esercizio solo all’ultimo, disperato tentativo. Ma la gente continuava a non ridere, distratta. Possibile che sfuggisse a tutti il senso della messinscena? Léo lanciò un’occhiata sui volti di fronte a sé. Confabulavano fitto. Possibile che non capissero il gioco sottile, lo scherzo, l’ironia? Possibile che lo ritenessero davvero un inetto buffone?

Léo forzò i tempi e andò spedito al finale, per mostrare a tutti cosa sapeva fare. Si mise ritto sulle mani, e proprio in quel momento un gecco in prima fila mosse due passi avanti, gettò nella scodella una moneta e prima di girare i tacchi per tornare agli affari suoi, alzò in aria il pugno e gridò:

– Viva Scaramouche!

Léo, a testa in giù, rimase impietrito. Qualcheduno lo aveva riconosciuto. Dannato cannone, e dannato Leonida Modonesi, accidenti a lui, alla sua testa, alle sue solite mattane, non poteva farsi gli affari suoi quella mattina? Che gli era preso? Tutto questo lo pensò da capovolto, e gli scappò pure detto: – Ora son cazzi, – ma nessuno lo udì, perché altri due spettatori avevano seguito l’esempio del primo e si allontanavano lanciando la medesima invocazione.

– Viva Scaramouche!

Léo si raddrizzò. Altri individui si stavano avvicinando per lasciar cadere nella scodella qualche moneta, subito imitati dagli amici intorno e via via dagli altri, che poi facevano segno ai più distanti, dicevano loro qualcosa –«È proprio lui, l’ha detto Machard»; «Ma sì, ti dico»; «È quello di Pontenuovo, lo Scaramouche del cannone d’allarme!» – e nuove monete raggiungevano quelle già ammucchiate sul fondo, mentre i primi della ressa stringevano la mano all’attore, gli davano pacche sulle spalle, gli dicevano cose come «Bravissimo!», «Cosi si fa!», «Ce ne fossero di più che non si limitano a cianciare!», e si allontanavano ripetendo ancora:

– Viva Scaramouche!

Léo aveva temuto di affrontare una mala parata, di dover fuggire gambe in spalla inseguito dalla cagnaccia, e invece l’intero crocicchio rimbombava di applausi e grida che inneggiavano all’eroe.

A volte basta la luce di un lampo per ritrovare la strada in una notte buia.

Dopo un sospiro di sollievo, Léo si inchinò e ringraziò la folla, ricambiò pacche sulle spalle e strette di mano, borbottò confuse frasi di ringraziamento.

Al contempo, però, giudicò fosse il caso di levare le tende. Senza smettere di sorridere e salutare, raccolse quel che aveva guadagnato e se ne filò via dritto, mai voltandosi, come se avesse fretta di andar di corpo, e a piccoli passi e chiappe strette si inoltrò per le vie del foborgo, badando che le monete non tracimassero sulla strada.

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