Dopo due giorni a cavallo tra San Martino e Manorba, ormai in vista dell’arrivo, D’Amblanc ebbe la sensazione di aver girato in tondo ed essere tornato al punto di partenza. Subito diede la colpa al laudano e ai dolori, poi si rese conto che i due luoghi erano davvero simili.
Stessa architettura rustica di case addossate a un ripido versante. Stesso campanile sopra i tetti d’ardesia: Stessi campi, aspri e difficili, sulle rive del fiume. Stesso profilo di monti, antichi vulcani precipitati dalla mano di un gigante. Sul crinale, come a San Martino, il relitto annerito di una dimora aristocratica, con la differenza che da questa si alzavano ancora i fumi dell’incendio.
Gli zoccoli dei cavalli affondavano nella polvere: non pioveva da settimane. Lo Sfregiato, privo della cavalcatura, si aggrappava alle reni di Feyfeux in sella al ronzino giallastro, che sembrava scomparire sotto il peso della soma d’uomini.
D’Amblanc scommise con sé stesso che in paese sapevano del suo arrivo. Le voci correvano in fretta, e la notizia della sua indagine doveva essersi arrampicata fin li. Forse gli aggressori del giorno prima avevano parenti in quel borgo. Forse ne erano addirittura originari.
A ogni modo, nessuno aveva messo insieme un comitato d’accoglienza. Sulla piazza, all’ombra di un olmo, c’erano solo bambini biondastri, scalzi e laceri. Fissavano la scorta in silenzio. Il più grande – poteva avere sette, otto anni –teneva per mano una bambina dai lunghi capelli, smagrita, gli occhi tondi e svuotati. Feyfeux ricambiava gli sguardi con espressione altrettanto vacua. Poulidor provò a salutare in lingua occitana. Lo Sfregiato mormorava qualcosa, forse scongiuri. Thuillant scrutava diffidente la scena. Il sergente Radoub si avvicinò a D’Amblanc e gli suggerì di osservare le finestre delle case. Dietro inferriate e infissi, si muovevano ombre di sentinelle appostate. Sui tetti, immobili, tre figure in armi sorvegliavano la scena.
Il sole di mezzogiorno pioveva raggi pesanti. Faceva caldo. Stanco di attendere, D’Amblanc si diresse verso la chiesa. Il portale di legno sembrava gravare sui cardini in bronzo da tempo immemorabile, ma l’edificio non doveva essere troppo antico. Era il colore del legno, nerastro e fumoso, a causare l’impressione di vetustà.
Un uomo, forse il sagrestano, fece capolino dalla fessura tra i due battenti.
– Chi l’è?
Dall’alto della cavalcatura, D’Amblanc stirò un sorriso.
– Mi chiamo Orphée d’Amblanc. Vorrei parlare col parroco.
– Il cura non l’i ei.
– Dove si trova?
L’uomo sprofondò nelle spalle e non aprì bocca.
Una voce fece voltare D’Amblanc.
– No pardre ten con Pascal, cittadino. L’è ’n po’, cuma se dis?, tardo.
Un tizio giovane, vestito da caccia, avanzava zoppicando verso di loro. Portava un fucile a tracolla e due pistole in cintura.
D’Amblanc smontò da cavallo e presentò le sue credenziali, immaginando che il comitato d’accoglienza fosse tutto li, e che l’uomo fosse il sindaco del villaggio.
– Il sindaco l’è ’ndà via, – fu la risposta. – Insema co’ mezzo conseio comunal –. Il braccio destro indicò la villa sul crinale. – L’avé vista la magione, su in cima? L’era la sò. E avante che l’abbrusavano, i avem truà un pacco de lettere così, scritte da l’autre brissotini cuma lò, e anca da l’emigrati, dai nobili foresti, per fà ’n’armada e prendé l’Occitania, da Lione infino a Bordeaux.
L’uomo prosegui raccontando che il paese viveva in allarme, temevano il ritorno in forze del sindaco e dei suoi, ma non avendo uomini a sufficienza per organizzare una difesa, si limitavano a barricarsi in casa al primo segnale di pericolo, pronti a far fuoco.
Soltanto alla fine della spiegazione, il cacciatore porse la mano e disse di chiamarsi Vidal, capofila dei sostenitori dei montagnardi nel consiglio comunale.
D’Amblanc rimase sorpreso da quella tirata, poi pensò che la scorta, l’accento parigino e le carte con i timbri del comitato di sicurezza lo rendevano molto più di un semplice inviato. Per una sineddoche imposta dalle circostanze, parlare con lui era come parlare con la Repubblica, unica e indivisibile, e metterla al corrente di soprusi e battaglie.
Vidal invitò D’Amblanc e gli uomini della scorta a sedersi al riparo di un tetto per rifocillarsi con pane, vino e formaggio. D’Amblanc accettò l’invito. Il gruppetto si mosse.
– Se volé riscontra il cura, no ve conven demandà a Pascal, – disse Vidal indicando il sagrestano, che sbirciava dal portone della canonica. – Quello pensa ancora de servi l’abbé Ledoux, che l’è refratari, mentre aoura i avem el pere Clément.
D’Amblanc rispose che intendeva incontrare entrambi, a tempo debito: sia il prete rimasto papista, sia il sostituto fedele alla Repubblica.
Proprio quest’ultimo, padre Clément, aveva inviato alle autorità dipartimentali il rapporto sul caso di possessione demoniaca che interessava Chauvelin.
I popolani avevano si eletto un nuovo parroco, ma avevano continuato a rivolgersi all’autorità morale del vecchio prete per salvare una figlia dalle mire di Satana. D’Amblanc non ne era affatto scandalizzato. Sapeva che il demonio è monarca assai più difficile da spodestare di un Capeto. E su questo anche il papa avrebbe concordato.
Tuttavia, Clément aveva fatto il suo dovere denunciando gli esorcismi di Ledoux, perché un prete refrattario non può celebrare né la messa né altri rituali e deve comportarsi come un qualunque cittadino.
Dopo aver riflettuto e riempito lo stomaco, D’Amblanc decise che non era il caso di mettere subito a confronto i due avversari e le loro versioni della storia. Prima preferiva sentire la testimonianza diretta della vittima dell’Avversario e domandò a Vidal di accompagnarlo a casa dell'Indemoniata.