Lasciato il luogo del massacro, la compagnia proseguì senza soste fino al tramonto. Il peso del corpo gravava sulle ossa. L’unico filo che teneva D’Amblanc legato al presente, all'Alvernia, alle circostanze della missione, alle scene che si snodavano davanti agli occhi, erano le fitte dolorose alle gambe e ai lombi, a cui si aggiunsero quelle al costato, come non gli accadeva da anni. Quest’ultimo non era un bel segnale.
La mente, forse per difendersi dalla paura, seguitava a estraniarsi nelle fantasticherie di un destino diverso. Mentre il sole batteva quelle colline tragiche, D’Amblanc si immaginò ferito da una palla di fucile, in America, molti anni prima. Si immaginò abbandonato sul campo, dato per morto, e ritrovato da una famiglia di mezzosangue. Immaginò di guadagnarsi di che vivere con le pellicce, per lunghi anni. Si vide sposato a una selvaggia. Contò i figli che nascevano, stagione dopo stagione, e i nipoti. Immaginò che la vita vera fosse quella, e il resto solo un sogno.
Giunsero nei pressi di una casupola in forma di pan di zucchero, tutta costruita con pietre a secco. Gli alverniati la chiamarono tsabana e doveva essere uno stazzo da pastori: per quanto abbandonato, mandava ancora odore di greggi e di caglio.
Feyfeux non la smetteva più di canticchiare, anche una volta smontato, mentre dissellava il ronzino. L’animale fu percorso da una scarica nervosa, sbuffò, accennò a scalciare. Feyfeux lo calmò mormorando qualcosa e mettendogli davanti al muso una grossa carota.
Attorno, gli altri uomini si preparavano per la notte e Radoub assegnava i turni di guardia. D’Amblanc era spossato. Liberò il cavallo dalla soma e preparò il giaciglio da campo, mentre lo Sfregiato e l’ebanista Thuillant spennavano due galline, dono della gente di San Martino.
Radoub lo raggiunse e si informò sul suo stato di salute. D’Amblanc lo tranquillizzò, ma il volto doveva essere segnato dalla sofferenza, perché il sergente rispose con un’espressione preoccupata, la fronte solcata di pieghe. Sebbene la missione non dipendesse da lui, Radoub doveva sentirsi responsabile della sua parte più guerresca, quando ci si giocava la vita, e delle conseguenze che essa comportava. Era uomo affidabile, coraggioso ma non avventato. Come i vecchi soldati, aveva una mentalità simile a quella di un attore o di un giocatore. Quando si è sulla scena, o nel mezzo di una mano di carte, o sul campo, tutto dev’essere fatto per portare a casa il successo.
D’Amblanc aprí la bisaccia e ne estrasse una bottiglietta, dalla quale bevve due rapidi sorsi. Tanto bastò per spargere all’intorno un odore alcolico, pungente, misto a quello di zafferano e noce moscata, i tipici aromi che si usavano per alleviare il sapore amaro del laudano. Prima di incontrare Mesmer, aveva fatto spesso ricorso a quel rimedio, e non ne conservava affatto un buon ricordo. Ma nella situazione in cui si trovava, era senza dubbio il male minore.
– È quello che penso che sia? – chiese il sergente.
– Allevia i dolori e concilia il sonno, – rispose laconico D’Amblanc.
Radoub lo guardò con un misto di preoccupazione e scetticismo.
– Che cosa vi procura dolore?
D’Amblanc strinse gli occhi.
– Vecchie ferite.
Radoub assunse un’espressione grave, che a D’Amblanc parve quasi paterna.
– Ferite di guerra?
– Nel nuovo mondo, contro gli Inglesi.
Radoub annuí.
– Io ho combattuto in quella precedente, dove ci rimettemmo il Canada. Ero con Senezergue alle Piane d’Abramo. Secondo battaglione, reggimento della Sarre.
D’Amblanc fissò il soldato. In America aveva ascoltato decine di leggende e racconti intorno alle Piane d’Abramo e alla battaglia per Québec del 1759.
– Dovevate essere giovanissimo, – commentò.
– Giovane lo ero, ma non così tanto, – si schermi Radoub.
– E voi? In quale reggimento prestavate servizio?
– Borbonese, – rispose D’Amblanc. – Ma non ho partecipato all’assedio di Yorktown. Mi hanno fermato prima.
Radoub annuí e indicò la bottiglietta.
– Non esagerate con quella roba. Pensate a star meglio.
Si accomiatò con un cenno di saluto e lasciò D’Amblanc con la testa lontana, affacciata su un altro tempo e un altro spazio, che portava addosso assieme ai segni nel corpo.
Non si aspettava di trovarsi in guerra, di nuovo, dopo tanti anni. Aveva pensato che il viaggio sarebbe stato una parentesi, un nulla lungo un paio di mesi, senza formulare aspettative. Doveva occuparsi di superstizioni montanare, questo aveva creduto, lontano dalla sorgente di ogni avvenimento degno di nota: Parigi. Lontano dai suoi pazienti. Lontano dalla signora Girard. Aveva accettato il compito senza pensare che poteva essere l’ultima fatica della sua vita. Era caduto nell’indulgenza verso sé stessi di chi si crede eterno, proprio mentre le circostanze che piagavano la Francia testimoniavano la precarietà di ogni esistenza. Era stato superficiale e distratto. Lo Sfregiato e Feyfeux – li sentiva parlottare nel loro dialetto – lo avevano riportato con i piedi sul suolo aspro di quella porzione di patria. Occorreva essere grati a quegli uomini. A chi si prendeva il rischio sulle spalle come un sacco di castagne.
I due avevano acceso un piccolo falò e, alla luce delle fiamme, tutti consumarono una cena silenziosa.
Erano soli, nella campagna, il cielo aperto come una conca blu punteggiata del fuoco freddo degli astri. La luna si assottigliava notte dopo notte. D’Amblanc si augurò che lo stesso accadesse ai suoi mali. Resistette alla tentazione di un altro sorso di elisir e si tirò la coperta fino alla punta del naso.
Estratto da
IL MOLIÈRE
commedia in cinque atti in versi di Carlo Goldoni (1751)
Atto primo, scena sesta.
MOLIÈRE
Gran cosa! A niun fo male, e son perseguitato;
il pubblico m’insulta, e al pubblico ho giovato.
Di Francia era, il sapete, il comico teatro
in balia di persone nate sol per l’aratro.
Farse vedeansi solo, burlette all’improvviso,
atte a muover soltanto di sciocca gente il riso.
E i cittadin più colti e il popolo gentile
l’ore perdean preziose in un piacer si vile:
gl’istrioni più abietti venian d’altro paese
a ridersi di noi, godendo a nostre spese;
fra i quali Scaramuccia, siccome tutti sanno,
dodicimila lire si fe’ d’entrata l’anno;
e i nostri cittadini, con poco piacer loro,
le sue buffonerie pagamo a peso d’oro.
Tratto dal genio innato e dal desio d’onore,
al comico teatro died’io la mano e il cuore;
a riformar m’accinsi il pessimo costume,
e fur Plauto e Terenzio la mia guida, il mio lume.
L’applauso rammentate dell’opera mia prima;
meritò lo Stordito d’ogn’ordine la stima;
e il Dispetto amoroso e le Preziose vane
mi acquistarono a un tratto l’onor, la gloria, il pane.
E si sentí alla terza voce gridar sincera:
Molier, Molier, coraggio; questa è commedia vera.
VALERIO
Per tutto ciò dovreste gioia sentir, non pena,
d’aver lasciato il Foro per la comica scena.
Coraggio, anch’io ripeto, coraggio.
MOLIÈRE
Si, coraggio.
Mi dà ragion d’averlo il popol grato e saggio
[lo dice per ironia].
Quel tale Scaramuccia, di cui parlai poc’anzi,
andato era a Firenze co’ suoi felici avanzi.
Lo maltrattaro i figli, lo bastonò sua moglie;
ei lasciò lor suoi beni, per viver senza doglie;
e tornato a Parigi a ricalcar la scena,
le logge e la platea, ecco, di gente ha piena.
Il pubblico che avea gusto miglior provato,
eccolo nuovamente al pessimo tornato.
E in premio a mie fatiche (perciò arrabbiato i’ sono)
corrono a Scaramuccia, lascian me in abbandono.