Il fianco occidentale del Poggio di San Sisto era meno impervio e selvaggio di quello che ospitava San Martino. C’erano querce, frassini e castagneti da frutto ben tenuti. La strada, più aperta e visibile della mulattiera sull’altro versante, si stringeva ogni tanto in colli di bottiglia, quando si trovava ad attraversare terreni più accidentati, e si piegava in svolte repentine.
Gli uomini, sulle cavalcature, procedevano in una fila che si era allungata di due unità. I rinforzi inviati dal sindaco di San Martino altri non erano che gli stessi della notte prima, i due ragazzi robusti che avevano aiutato a imbrigliare l’uomo-cinghiale.
Mentre procedeva immerso nel silenzio selvatico di quella landa, D’Amblanc si trovò a pensare che a rendere ostile un territorio non sono la conformazione, gli ostacoli impervi o un clima disagevole, ma piuttosto la mente di chi lo abita. Che certo è influenzata anche dall’ambiente, ma può essere diretta, condotta o sviata da altri fattori, come la religione e la superstizione. Forme di pensiero che si perpetuano immutabili stagione dopo stagione, nei secoli. Ma se è vero che ogni epoca, ogni temperie ha una sua mentalità, allora la Francia e il mondo stavano assistendo alla nascita, attraverso doglie dolorose e inevitabili, di una nuova epoca e della nuova mentalità che le corrispondeva.
Fattori ambientali. In quelle campagne, religione e ossequio verso nobili e ricchi erano naturali quanto la brina nei giorni d’inverno o la canicola sotto cui procedevano, il sole già alto nel cielo.
Pensò alla docilità infantile di quei contadini, alla radicale alterità di uomini come Jaranton. Era fatica che non trovava le parole per ribellarsi, e allora luna piena, influssi sottili, suggestioni, evocazioni: il mondo magico del passato diveniva il bacino ove sfogare energia repressa, negata.
Quelle lande, però – ventre profondo della patria, lontane da Parigi non solo nello spazio, ma dislocate in un altro ordine del tempo – non producevano solo tipi umani avvezzi a obbedire al dettame di generazioni, al peso dei secoli trasformati in giogo. Gli uomini della sua scorta locale, per esempio, testimoniavano che il cambiamento era in atto. Era sempre la stirpe alverniate, il ceppo di Vercingetorige, ed erano pastori o taglialegna come gli altri, però avevano scelto di muovere un passo fuori della traiettoria circolare, da asini legati a un palo, che nobili e clero avevano sempre imposto e ritenevano giusta per volontà divina.
Uno era alto, possente, le spalle quadrate, volto dai tratti ancora infantili, ma segnato sulla guancia da una cicatrice profonda. Quest’ultima gli conferiva l’aria di desolata minaccia che hanno le bambole rotte. Si chiamava Doiet, ma nella mente di D’Amblanc era «lo Sfregiato». Armato con un fucile da caccia e un coltellaccio delle dimensioni di una daga, procedeva in mezzo al gruppo a dorso di mulo.
L’altro era alto e magro, ma quando aveva afferrato l’uomo-cinghiale, lo aveva fatto con braccia salde ed espressione decisa. Uno di quei magri dalla forza nervosa, rifletté D’Amblanc, i tendini come acciaio armonico e i muscoli ben allenati. In lui il fluido doveva scorrere senza blocchi o interruzioni. Sotto il cappellaccio logoro, in sella a un ronzino giallastro, intonava di tanto in tanto strofe di qualche incomprensibile canzone locale. D’Amblanc rammentò di colpo il suo cognome insolito: Feyfeux.
Eccoli, i rivoluzionari alverniati, soldati di una nuova èra, abbigliati in panni che avrebbero dovuto suggerire un’appartenenza marziale, e invece li facevano apparire simili a banditi del passato, trasfigurati dall’immaginazione di un poeta o di un pittore. Il loro aspetto era romantico, avrebbe detto un inglese. Ma non era tempo di cedere alle malie del pittoresco. Il drappello si apprestava a guadare un torrente nel folto del bosco. Il terreno era già un pantano di muschio e piante acquatiche. Dal crinale sovrastante scendevano i massi di un’antica frana.
D’Amblanc senti un rumore di ghiaia e detriti che rotolavano a valle per un breve tragitto. Il sergente Radoub fece appena in tempo a dare l’ordine di smontare da cavallo. Dalla macchia giunse una salva di fucileria. Il mulo dello Sfregiato stramazzò al suolo. L’uomo rotolò a terra, ma con velocità animale balzò a capo chino e si gettò dietro il cadavere della sua cavalcatura.
– Al riparo! – ordinò Radoub, e rivolto a D’Amblanc:
– Ricaricano. Un’altra salva e ci assaliranno –. Scrutò il crinale della salita e gridò: – Sparate soltanto quando saranno vicini!
Come un’eco, giunse il suono secco dei fucili e dalla vegetazione sali una nuvola di fumo, ma gli uomini s’erano già rintanati dietro gli alberi, trattenendo i cavalli per le briglie. Udirono l’urlo degli assalitori, che infine apparvero, saltando giù per la discesa e riversandosi sulla pista in ordine sparso. Parevano selvaggi vestiti di pelli. Chi aveva moschetti li scaricava, correndo, sul bersaglio, altri tiravano con la fionda.
– Adesso! – ordinò Radoub.
Parti la salva di risposta, ma l’unico effetto l’ottenne il fucile da caccia dello Sfregiato. L’ampia rosata, da quella distanza, rendeva impossibile fallire il colpo. Uno degli assalitori cadde, urlando per il dolore. Gli altri rallentarono la corsa. D’Amblanc spianò le pistole, ma senza riuscire a trovare un nemico sulla linea di tiro. Agli ordini secchi di Radoub, la scorta si riunì in formazione serrata: gli assalitori esitarono. L’uomo magro di nome Feyfeux si scagliò urlando contro il più vicino degli avversari, lo travolse, gli fu sopra, lo colpì al petto con il coltellaccio ed ebbe il tempo di sgozzarlo mentre intorno la mischia si accendeva. La polvere smossa dai passi e dai corpi si sommò al fumo degli spari stagnante ancora sul teatro della lotta. Gli alverniati della scorta combattevano come furie mentre i parigini, baionette spianate, tenevano lontani gli avversari. I lealisti, o chiunque fossero, lasciarono sul terreno un altro dei loro, prima di fuggire di nuovo verso il bosco.
Ecco la piccola guerra, pensò D’Amblanc, stringendo le impugnature delle pistole ancora cariche. Proprio come in America.
Ebbe la netta impressione che quella scena si fosse già svolta, nelle stesse identiche circostanze.
Una volta, sulle rive del Brush Creek, le guide indiane li avevano portati nel bel mezzo di un’imboscata. Se l’erano cavata per un soffio, dopo un assalto all’arma bianca tra gli alberi, nell’ombra invasa dal fumo della polvere nera. Alla fine, senza alcuna forma di processo, gli indiani erano stati giustiziati sul posto, guide e prigionieri. A quei tempi, D’Amblanc aveva già smesso di riconoscere un valore morale al gesto bellico in sé, all’uccidere e allo squartare. La guerra era una dura necessità, occorreva portarla a termine in maniera vittoriosa per il bene della patria.
Il colossale alverniate con lo sfregio sulla guancia fece un cenno all’amico Feyfeux, indicando i corpi riversi degli assalitori. Uno di questi dava ancora spasmi: lo fini con il calcio del fucile, due colpi secchi sul cranio. D’Amblanc guardò i cadaveri degli sconfitti. Non erano che pastori mutati in soldataglia della reazione, ma la partita avrebbe potuto chiudersi a parti invertite. Una complessa serie di incastri fortunati – il fucile da caccia, l’esperienza di Radoub, la reazione coraggiosa di Feyfeux – aveva portato a quell’esito. Questo è la guerra, pensò: la prova se il proprio destino è da fortunati. E più diventa piccola, ridotta negli spazi e negli schieramenti, più grande è l’importanza della sorte.
Intanto gli alverniati avevano cominciato il loro lavoro. La spoliazione fu accurata e i due si divisero tutto ciò che poteva servire: polvere, acciarini, coltelli, un’ascia, una bisaccia con pane e formaggio. Terminata la distribuzione, lo Sfregiato si diede a cavare i denti delle vittime, utilizzando una tenaglia arrugginita. I gesti, veloci e abili, erano quelli di un uomo avvezzo a quel compito. Le dentiere di veri denti umani erano costose, molto superiori a quelle in legno o in osso animale. I denti avevano mercato.
D’Amblanc assisteva alla scena come si trattasse di uno degli incubi che ogni tanto tornavano a visitarlo, e avevano come teatro un altro tempo e un altro continente.
Ma si era in terra francese, e il dottore si scosse, pronto a intervenire.
– Lasciateli fare, cittadino, – lo trattenne Radoub. – Lo ritengono un loro diritto, e in effetti lo è. Non sappiamo quali odi attraversino queste terre.
Feyfeux, intanto, tranciava dita per impadronirsi delle fedi nuziali.