I.

La mulattiera che separava il corso della Dordogna dall’abitato di San Martino si inerpicava per un costone brullo, senza ombra di alberi. I quattro uomini spronavano i cavalli su per la salita, rinfrancati da un vento fresco che scendeva a refoli dal Poggio di San Sisto.

D’Amblanc era ben grato a Chauvelin per avergli messo a disposizione tre uomini di scorta. Erano cittadini inquadrati nella guardia nazionale. L’unico ad avere una formazione militare era il sergente Radoub. La sua casacca bianca col tricorno nero non era un segno di nostalgia per l’esercito del re: le nuove uniformi scarseggiavano e chi restava senza doveva arrangiarsi con quel che aveva. Thuillant e Poulidor, come unico segno distintivo, portavano il berretto frigio e la coccarda tricolore. Il primo si guadagnava da vivere come ebanista ed era parigino da generazioni. Il secondo, invece, abitava nella capitale da una decina d’anni, ma era nato e vissuto nel Limosino, ai confini con l’Alvernia, e questo, agli occhi di D’Amblanc, lo rendeva «uno del posto», capace di emettere i suoni delle lingue occitane e di svelare gli umori oscuri dei montanari.

D’Amblanc osservò il profilo del paese e la robusta fortezza che lo dominava. San Martino era prossimo solo in linea d’aria. Alla fattoria dove si erano accampati quella notte, gli avevano predetto un viaggio di cinque ore, e ne erano trascorse meno di quattro. Tornanti, curve, continuo alternarsi di salite e discese allontanavano la meta. La marcia di uomini e cavalli era un incrocio fra tela di Penelope e supplizio di Tantalo.

Il villaggio sorgeva addossato al campanile della chiesa, poche manciate di case in sasso. Il castello arroccato sul crinale era una carcassa annerita ma intatta. D’Amblanc pensò a un incendio recente, suggello alla fuga di un nobile e a un accurato saccheggio. Il teatro della prima indagine in terra d’Alvernia era un palcoscenico rozzo, distante da Parigi ben più delle cento leghe coperte in quei giorni di viaggio. Eppure, l’eco di quanto andava in scena nella capitale determinava i destini di quella gente. Ristette, contemplando la salita finale e l’ultima curva, marcata da un muricciolo, che li separava dall’entrata in paese. A poca distanza, sulla soglia di un casotto coperto di rampicanti, un uomo d’età indefinita era intento a nutrire un mulo.

– Buongiorno a voi, – disse D’Amblanc.

L’uomo portò una mano al berretto e ricambiò il saluto. Squadrò i tre della scorta, trattenne uno sbuffo e proseguì in un francese sorprendentemente comprensibile.

– Che cosa vi preme fin qui, cittadini? Il paese non si è sottratto alla leva. Qui siamo dalla parte giusta, io credo.

– Niente a che fare con la leva, – lo rassicurò D’Amblanc.

– Sono altre faccende. Suppongo che conosciate dove si trova l’abitazione del sindaco.

– Supponete giusto.

– Potete indicarmela?

Prima di rispondere, l’uomo studiò il forestiero. D’Amblanc pensò che volesse accertarsi delle sue buone intenzioni. La coccarda, il portamento eretto, le impugnature delle pistole che spuntavano dalla bisaccia parlavano di città fin da lontano, ma non fornivano altri appigli. La scorta aggiungeva al tutto un’aura di importanza e di ufficialità, e forse fu quella a convincere il mulattiere.

– La magione è la prima, appena si apre la piazza, sulla mano manca.

D’Amblanc frugò sotto la giubba, nel taschino del panciotto, e ne estrasse una moneta che tenne alta fra pollice e indice.

– Eccovi tre deniers.

La moneta portava sul retto l’effige di Luigi XVI «Re dei Francesi» e sul verso un fascio sovrastato dal berretto frigio con il motto «La Nazione, la Legge, il Re». La scritta attirò l’attenzione di D’Amblanc: la storia procedeva di gran lunga più in fretta della zecca nazionale.

Il mulattiere accettò il pagamento.

– Quand’è così, – aggiunse, – venite, vi faccio strada.

D’Amblanc lo segui a piedi insieme alla scorta, i cavalli dietro, zoccoli che suonavano ritmici nell’aria di giugno. Aveva caldo, il sudore scendeva da sotto il tricorno.

Un comitato di facce stolide si era radunato di fronte alla chiesa: donne, bambini e soprattutto uomini sopra la trentina. Pochi i giovani, scampati al sorteggio della leva all’inizio dell’anno. Gli assenti difendevano la Repubblica in Vandea o sui confini, oppure già marcivano su qualche campo di battaglia, in fosse comuni.

Un ometto grassoccio, mal rasato e con un logoro cappello, uscí dalla porta della casa indicata dal mulattiere e avanzò mettendosi a tracolla una fascia tricolore.

– Buona giornata a voi. Sono Pierre Bizebarre, sindaco del villaggio.

D’Amblanc sfilò dalla tasca il foglio con le credenziali, lo stese con cura e lo porse al sindaco.

– Orphée d’Amblanc, in viaggio da Parigi su incarico del comitato di sicurezza generale.

Quelle parole provocarono un serpeggiare di bisbigli. Il sindaco deglutì e lesse in fretta il documento. Quand’ebbe finito, si impetri davanti al nuovo venuto.

– Quali incombenze vi menano al nostro villaggio, cittadino D’Amblanc?

– Ho il compito di indagare su un fenomeno che si dice abbia avuto luogo in questo paese.

Il sindaco tossicchiò: – Se vi riferite alle dicerie sull’accaparramento delle derrate, posso assicurarvi, cittadino, che si tratta di maldicenze. San Martino è un villaggio abitato da gente onesta, tutti buoni patrioti... – Si azzittí davanti alla mano alzata di D’Amblanc.

– E io posso assicurarvi, cittadino, che non è mio compito perseguire gli accaparratori. A ciò provvede inesorabile il gladio della legge.

Stavolta il bisbiglio in seconda fila risuonò più forte, ma il sindaco sventolò le braccia, come un uccello in procinto di spiccare il volo, e tanto bastò per farlo cessare. Bizebarre rimase bloccato, le braccia tese a mezza via, né su né giù, il busto proteso in avanti e la testa di lato.

– Sono qui per far luce sui casi di licantropia, – disse D’Amblanc mettendo enfasi sull’ultima parola.

La faccia tonda del sindaco si accartocciò in una stretta di labbra, occhi e sopracciglia. Poi d’un tratto si distese.

– Casi? Il caso, intendete dire. Certo. Temo però che siate in anticipo.

– In anticipo per cosa? – chiese D’Amblanc.

– Be’, per vedere con i vostri occhi. Mancano ancora quattro giorni alla luna piena.

D’Amblanc registrò l’informazione senza altre domande. Avrebbe avuto tutto il tempo per farne in seguito.

– Sarà dunque vostra cura fornirci alloggio, – disse prelevando la bisaccia dalla sella.

– Provvederò immediatamente, – si affrettò a replicare il sindaco. – Spero vorrete perdonarci se la sistemazione non sarà all’altezza delle dimore della capitale. Intanto, se volete seguirmi nella sala del consiglio comunale... Il viaggio sarà stato lungo, vorrete rifocillarvi.

Il sindaco scortò D’Amblanc, scortato a sua volta dalle guardie arrivate con lui da Parigi. La piccola folla, alla quale si unirono un paio di cani, li segui per l’unica strada, fino allo slargo dove sorgeva un edificio basso, il portone sovrastato dallo stemma della Repubblica. La processione si fermò davanti all’uscio. Il sindaco entrò per primo e accolse D’Amblanc dentro i locali del consiglio comunale, uno stanzone scarno, arredato con un tavolaccio antico e vecchi seggi di legno. A D’Amblanc toccò lo scranno del sindaco.

Arrivarono pane, cacio, frutta, bottiglie di vino. Un pasto dignitoso, consumato in silenzio, sotto l’occhio attento di sindaco e consiglieri.

Al termine, D’Amblanc allontanò il piatto e si allungò sullo schienale.

– Molto bene. Suppongo sia meglio cominciare dall’inizio. Vi sarei grato se mi raccontaste cosa accade con la luna piena. E senza tralasciare i dettagli. Inoltre vorrei che convocaste qui, per domani mattina, tutti i testimoni utili.

Quella sera, e per tutta la permanenza a San Martino, D’Amblanc fu alloggiato nella dimora di una vedova, la signora Decabane.

La donna aveva da poco passato la trentina, era piuttosto robusta e d’aspetto sano, e dopo la morte del marito era rimasta proprietaria di una casa abbastanza grande e confortevole per ricevere un ospite. Era un’eccellente cuoca e si faceva aiutare dalle figlie nelle faccende domestiche. O piuttosto dirigeva i lavori delle fanciulle, avrebbe detto D’Amblanc, giacché in quei giorni non la vide mai impugnare uno straccio o una ramazza.

A coronamento del pasto serale, la vedova presentò una torta di marmellata di mirtilli che D’Amblanc, nonostante l’aspetto invitante, preferì rifiutare con gentilezza. Una fetta generosa di dolce gli sarebbe stata di peso sullo stomaco per tutta la notte. Tuttavia, dopo essersi ritirato nella stanza al piano di sopra, scopri che la vedova non era donna da lasciarsi scoraggiare, anzi, era ben intenzionata a fare apprezzare le proprie doti fino in fondo. Infatti, non si fece scrupolo di introdursi nella sua camera, per ribadíre l’offerta con più espliciti argomenti. D’Amblanc non avrebbe mai voluto offenderla. Del resto non poteva negare di avere un debole per la marmellata. E dall’ultima volta che l’aveva assaggiata era trascorso molto tempo. Cosi si risolse a gustare la leccornia che gli veniva offerta. Nel farlo, scopri che il suo peso sullo stomaco era tutto sommato più gentile di quanto l’apparenza lasciasse supporre, al punto che accettò un bis.

Volando con la mente, Orphée d’Amblanc avrebbe potuto immaginarsi in compagnia di un’altra donna. Provò a farlo, ma mancava qualcosa. Un profumo. Essenza di gelsomino.

Poi le circostanze gli impedirono ogni indugio.

Share on Twitter Share on Facebook