3.

Quel giorno il mercatino era affollato. Il caldo d’inizio estate aveva spinto i visitatori fino a li, a curiosare tra i banchetti allestiti dai reclusi. I custodi osservavano in disparte, sequestrando all’ingresso bastoni da passeggio e ogni oggetto che potesse diventare un’arma. Dopo l’episodio di Cabot, il governatore Pussin aveva ordinato controlli rigidi e impedito che gli alienati più gravi vagassero in cortile insieme agli altri.

Laplace sedeva accanto a Malaprez, all’ombra del sicomoro dove si erano incontrati la prima volta. Il giovane contadino aveva il braccio fasciato appeso al collo, ma il viso non tradiva sofferenza: ogni sera Laplace lo magnetizzava per alleviare il dolore fino a farlo sparire.

– Cosa faresti se potessi uscire di qui? – chiese Laplace al compagno, rompendo il silenzio.

– Penso che se mi fanno andare fuori, me ne torno al paese mio.

– Parigi non è di tuo gradimento? – ghignò Laplace.

Il biondo Malaprez rifletté sulla domanda senza coglierne l’ironia.

– Quando stavo fuori, prima di finire qui dentro, mi smerdavano tutti. Infino i bifolchi come me. Perché non so leggere e scrivere. Perché sono misero. Perché non sono parigino.

– Nemmeno io sono di Parigi, – annuí Laplace. – E quassù ho solo brutti ricordi.

– Anche voi ve ne andrete, allora?

Laplace osservò la gente che girava per il cortile, gli alienati mescolati alle persone normali.

– No. Con questa città ho un conto in sospeso.

– Sapeste io! – commentò Malaprez affettando l’aria col taglio della mano. – Un sacco di conti. Ma se mi metto a regolarli, finisco nei guai.

Laplace gli appoggiò una mano sulla spalla.

– Perché non sai riconoscere la giusta battaglia. Io invece potrei...

Le parole gli morirono in bocca. Fissò un punto preciso oltre le bancarelle dei venditori. Si alzò di scatto e fece segno a Malaprez di restare dov’era.

Si spostò con calma, seguendo l’ombra degli alberi, senza smettere di fissare lo stesso punto, dove una figura scura avanzava tra le bancarelle guardandosi attorno. Solo quando fu a ridosso del muro di cinta, Laplace uscí alla piena luce del giorno e rimase fermo, in attesa di essere visto.

L’uomo indossava un cappellaccio a tesa larga e un pastrano beige con i lembi sporchi di fango, come gli stivali. Quando ebbe individuato Laplace si mosse verso di lui, appena ricurvo, fermandosi a un paio di passi.

– Sono io, cavaliere, – annunciò con un pleonasmo. – Sono La Corneille –. Poi alzò la tesa del cappellaccio e scostò il fazzoletto che copriva bocca e naso.

Solo che il naso non c’era. Laplace dovette vincere la ripugnanza e guardare quel viso mutilato, che pure gli era familiare. Al posto dell’organo dell’olfatto, solo i buchi delle narici, come se un taglio netto di spada avesse mozzato la cartilagine fino all’osso. Gli occhi neri, incavati nelle orbite, e i denti guasti, completavano il ritratto di un essere spaventoso.

– Perché sei qui?

L’altro si toccò il cappello in segno di saluto.

– Reco un messaggio.

– Ti avevo ordinato di non venire a cercarmi, finché non ti avessi mandato a chiamare.

L’uomo lo guardò di sottecchi, con falsa umiltà.

– È il barone, signore. È lui che mi ha dato il messaggio.

Laplace dovette trattenersi dal colpirlo. Guardò oltre le sue spalle, nessuno prestava loro attenzione. Fece segno all’altro di seguirlo. Lo condusse nel suo alloggio. Gli ordinò di sedersi sulla branda. Preferiva dominarlo dall’alto e non avere davanti quella faccia da morto.

– Hai detto al barone dove mi trovo?

– Nossignore –. L’uomo lesse qualcosa nello sguardo di Laplace e si affrettò ad aggiungere: – Lo giuro.

L’espressione di Laplace non mutò.

– Te lo chiedo un’altra volta, La Corneille. Hai detto al barone dove mi trovo?

L’uomo portò una mano al cuore e scosse la testa.

– Sul sangue dei santi, – mormorò.

– È venuto a cercarti? – chiese Laplace.

– Due giorni fa ero al mio posto, al Palazzo Egualità, a fare il mio lavoro, quando mi avvicina un gecco mai visto prima e mi dice che qualcuno mi vuole incontrare. Stavo già per dirgli di andarsene in Guyana, ma mi ha mostrato lo stemma del barone.

L’uomo chiamato La Corneille prese fiato e occhieggiò la brocca sul tavolo. Laplace capi, riempi l’unico bicchiere e glielo offrí.

L’altro tracannò l’acqua e si leccò le labbra.

– Vai avanti, – intimò Laplace.

– Mi ha condotto in una casa. Una casa di amici, buoni realisti. E li c’era il barone in persona.

Laplace fece un passo verso la finestra, ritrovandosi faccia a faccia con il Marat di ossi di pollo.

– Il barone a Parigi. Cosa ti ha detto?

– Ha detto che avrei dovuto consegnarvi un messaggio.

– E tu gli hai detto che potevi farlo?

– Si. Ma non ho detto dove vi trovate. Né lui me lo ha chiesto.

Laplace tornò a voltarsi, vincendo la repulsione per quella faccia. Aveva la pelle d’oca e lo stomaco stretto.

– Qual è il messaggio?

La Corneille provò a drizzare la schiena, senza grossi risultati.

– Il barone vuole ritentare... – esitò. – Con la regina.

Laplace assaporò la sensazione di sollievo indotta da quelle parole. Ne rimase piacevolmente stupito, al punto di lasciarsi andare a una risata in faccia al suo ospite, che lo fissò esterrefatto.

– Il barone vuole fare evadere la regina. Mio Dio... E perché non il delfino, allora? Perché non l’erede al trono?

La Corneille rispose come se si fosse aspettato l’obiezione.

– Forse non avete saputo che il delfino non è più segregato con la madre. È stato assegnato a un consigliere del comune, perché faccia di lui un «buon cittadino» –. Sottolineò la frase con una smorfia di disgusto. – È cosa di pochi giorni fa.

Laplace rise ancora.

– Quindi il barone mi offre un posto nella congiura.

L’altro annuí, incerto, sempre più spiazzato da quell’ilarità.

Laplace tornò serio, guardò con disprezzo l’uomo privo di naso e disse: – No.

La Corneille trattenne il fiato.

– Il barone...

– Il barone è un illuso, – lo interruppe Laplace. – Non gli è bastato il fallimento di gennaio?

– Dice che il momento è propizio. In Vandea i nostri resistono con coraggio. Si attende l’appoggio della flotta inglese...

Il disprezzo di Laplace si induri. Raccolse la scultura di ossi di pollo e prese a rigirarsela tra le mani.

– La Corneille, c’eri anche tu il 21 gennaio, quando abbiamo fallito e il sogno del barone si è rivelato senza fondamenta. C’eri anche tu, quando abbiamo gridato: «Viva il re!» E dimmi, cos’ha fatto il dissennato popolo di Parigi?

La Corneille abbassò la testa, schiacciato dal peso del ricordo, dello scacco subito, della fuga indecorosa.

– Ci ha perculati come fossimo una banda di ubriachi. Poi hanno ucciso Gardère e Vigneron. Per giorni, al lavoro, ho temuto che mi avessero riconosciuto, che le guardie venissero a prendermi. Uno senza naso non passa punto inosservato. Ma non è venuto nessuno. Siete venuto solo voi, per dirmi che vi sareste chiuso qui dentro.

Il mostro alzò lo sguardo. Laplace vide su quel muso qualcosa di diverso e interessante. Una fenditura, una crepa.

– Non è andata come volevamo, – prosegui quello. – Ero così fiero di essere li ai vostri ordini, uno sgraziato come me, l’ultimo degli ultimi, un custode del Palazzo Egualità che libera il re di Francia insieme al barone di Grèche e al...

– Rispondi a una domanda, La Corneille. Perché siamo giunti a questo?

– A questo, signore? Intendete la rivoluzione?

– Si, spiegami perché.

– Per colpa dei sediziosi, degli affaristi corrotti, degli speculatori, dei massoni che hanno sobillato il popolo e dei traditori che hanno lasciato sguarnito il trono.

Laplace ripose la scultura sul davanzale.

– Fandonie! – sbottò. – Siamo giunti a questo perché le casse dello stato sono state svuotate per finanziare una guerra oltreoceano a favore dei ribelli americani. Gli stessi che ci hanno restituito il favore ispirando i sudditi francesi a fare come loro. Siamo giunti a questo perché la ricchezza della Francia è stata scialacquata in banchetti, balli, ambascerie e puttane. Siamo giunti a questo perché invece di guidare il paese, i nostri sovrani e i nostri nobili hanno trascorso la vita a mangiare e fottere. Siamo giunti a questo perché la volontà ha ceduto il passo alla mollezza.

Il silenzio si fece denso, palpabile. La Corneille sembrava non avere ancora ritrovato il fiato, o forse temeva di far udire il proprio respiro. Era turbato e questo non giovava all’espressione spaventevole della sua faccia menomata.

Laplace si impose di guardarlo, vincendo il ribrezzo.

– Nonostante questo, – riprese, – anch’io come il barone ho creduto che salvare il sangue reale fosse l’unica certezza di una successione futura, di una rinascita dopo la grande confusione. Oggi guardo in faccia la verità e non ho timore a dichiararla. Luigi doveva morire. Maria Antonietta deve morire. E anche il delfino. Tutti quanti. Il loro sangue deve essere versato, e insieme al loro, quello di migliaia, perché soltanto un lavacro di sangue può far risorgere la Francia dalle proprie ceneri. Non si torna indietro, bisogna andare avanti –. annuí ai propri pensieri.

– La Vandea? Villaggi incendiati, gli abitanti massacrati... Una tabula rasa. È quello che serve. Gli uomini del destino sono i Robespierre, i Marat, i Danton. Costoro non vogliono salvarsi, non fuggono, sono pronti a dare la morte e a sacrificarsi per ciò in cui credono. Morranno tutti, infatti. Si sbraneranno senza pietà, dopo avere eretto una piramide di teste alla loro Repubblica. E ciò che deve accadere.

Laplace, circonfuso dalla luce che entrava dalla finestra alle sue spalle, sovrastò La Corneille.

– La mia spada serve ancora la stessa causa, ma ora la mia vista è più lunga. Per quelli come Grèche, io non esisto più. Torna da lui e digli che non mi hai trovato, che nessuno sa più dove io sia. Digli che mi ha divorato il Minotauro. Uscirò dal labirinto a tempo debito, e allora si, sarà il nostro momento.

La Corneille tornò a respirare, esitò, fece per alzarsi, ma cadde in ginocchio.

– Mio signore, quando il momento verrà, non dimenticatevi di me. Concedetemi di servirvi ancora. Qualunque cosa...

Laplace lo guardò afferrargli la mano e portarsela alle labbra. Quelle narici cavernose gli sfiorarono le dita. Contrasse i muscoli, come fosse una prova di forza, ma non ritrasse la mano. Squadrò quell’essere deforme dall’alto in basso, nutrendosi della sua devozione.

– Quando verrò a cercarti dovrai essere pronto a lasciare tutto. A dare la vita.

La Corneille si percosse il petto.

– Tutto, pur di vedere un’alba nuova sulla Francia.

Estratto da

SAGGIO SULLA TEORIA DEI VULCANI D'ALVERNIA

di François-Dominique de Reynaud, conte di Montlosier (1802)

La storia naturale dell’Alvernia non è altro che la storia dei suoi vulcani.

Nessuna terra al mondo è stata tanto sconvolta dall’azione dei suoi fuochi sotterranei; nessuna terra al mondo ne ha conservato vestigia più sorprendenti.

È ben singolare che tali catastrofi terribili, che la natura ha inciso ovunque, con caratteri la cui impronta ci pare a volte tanto recente, non abbiano lasciato alcuna traccia né nei monumenti degli uomini né nelle loro tradizioni, né nelle favole.

Noi sappiamo da alcuni saggi storici che i Galli avevano tradizioni scritte, molto antiche; come mai gli scrittori che li hanno compulsati con tanta cura, per trarne storie senza interesse o verosimiglianza, non ce ne hanno insegnata alcuna che abbia a che vedere con le antiche combustioni della nostra terra? Ci mancano le fonti da parte dei druidi, perché non scrivevano nulla; d’altronde, questi ministri di una religione grezza e feroce, erano ben più occupati a ingannare un popolo ignorante, che a istruirlo sulle grandi rivoluzioni della natura.

Cesare viene in Alvernia, attraversa i nostri crateri, si accampa sulle nostre lave, utilizza per i suoi lavori, le sue macchine e i suoi edifici una gran quantità di materia vulcanica, ma non pare che tutti questi detriti carbonizzati gli abbiano fatto la minima impressione.

In seguito alcuni scrittori, come Gregorio di Tours e Sidonio Apollinare, ci hanno lasciato alcune note sull’Alvernia. Ma si avrebbe un bel da leggere per intero tutti i loro scritti, e non vi si troverebbe la più piccola luce per quanto concerne i nostri vulcani. Sidonio fra l’altro ci ha descritto, con molta enfasi, le bellezze della sua elegante villa di Avitac, senza sospettare che questa Avitac (oggi Aydat) era un luogo pieno di reperti vulcanici, e che il lago e le isole devono la loro formazione a correnti di lava.

Dopo questo silenzio e questa cecità generale, non c’è da stupirsi che gli alverniati, popolo semplice e laborioso, abbiano dimorato tanto a lungo sulla loro terra, senza sospettare delle antiche crisi che ha vissuto. In tutti questi crateri e torrenti di lava, in mezzo a tutte queste spaventose vestigia delle antiche convulsioni della natura, il popolo non vede che campi, abitazioni, greggi; i Romani non vedono che accampamenti e macchine da guerra; Sidonio fontane, naumachie e tutto quanto può far parte di una dimora superba; e anche nei nostri tempi, il nostro famoso Pascal non vi scorge altro che la pressione dell’aria e il suo barometro. Ma che importa se gli uomini sono muti, quando la natura parla, e soprattutto, parla con tanta energia!

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