Il ragno aveva tessuto la tela con metodo, nell’angolo dove la parete incontrava il soffitto. L’uomo che si faceva chiamare Laplace, steso sulla branda, le mani dietro la nuca, era rimasto a osservarlo incantato, chiedendosi quale naturale ingegno consentisse a un essere così piccolo di produrre un tale capolavoro. Alla fine il ragno si era posizionato al margine della tela e non si era mosso più, ma Laplace non aveva smesso di fissarlo e di percorrere con lo sguardo la perfetta geometria dei fili, lasciando che la mente vagasse a ritroso, nei territori del prima. Prima della Grande Confusione, prima della fine del mondo, quando lui aveva un altro nome e dedicava tempo ed energie alla corrispondenza scientifica con il marchese di Puységur.
Il marchese prediligeva i contadini. «Le menti semplici e incolte, – gli scriveva, – sono perfette per il magnetismo, offrono meno resistenza». Inoltre, era convinto che i villici, non potendo permettersi un buon medico, fossero afflitti da molti malanni, anche latenti. «Cosicché gli esperimenti con loro non sono mai un nostro svago, ma sempre volti alla cura».
Laplace aveva iniziato a magnetizzare la servitù. Poi, appena la notizia dei suoi risultati s’era sparsa all’intorno, i contadini erano arrivati da soli. Chi per i denti, chi per la febbre, chi per la pellagra. Laplace non credeva che il magnetismo potesse curare la miseria a cui quegli esseri erano destinati. Ciascuno ha il proprio posto nell’ordine del mondo. Tuttavia, non aveva detto nulla, si era limitato a rimandarli indietro quando erano diventati troppi. Puységur aveva ragione: le menti semplici si lasciano andare con più facilità, e la fiducia è alla base della terapia magnetica. Tuttavia, le menti di quei bifolchi erano si semplici, ma anche grezze, rovinate dalla fatica della vita, dal lavoro nei campi, dagli stenti, dalla lussuria.
Operare con simili impurità era come cercare la pietra filosofale in un porcile.
Aveva bisogno di una materia non contaminata, per mettere alla prova il magnetismo animale e valutarne gli effetti senza interferenze.
Bambini.
Otto, nove anni al massimo. Analfabeti e ignari del mondo.
La prima era stata Noèle.
Occhi grandi su un faccino smunto incorniciato da capelli color stoppa. Soffriva di amnesie, le capitava di dimenticare cosa avesse fatto appena il giorno prima. Laplace l’aveva magnetizzata e le aveva chiesto di dire tutto ciò che non andava. La piccola Noèle aveva colmato i vuoti di memoria, poi era passata a raccontare vita, morte e miracoli degli abitanti del suo villaggio. Non c’era bassezza o lordura compiuta da quei miserabili che la bambina non avesse intuito, osservando e decifrando segni e cenni, meglio di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi adulto. E non aveva remore a sciorinarli come se sgranasse un rosario. Aveva persino raccontato di ruberie sulle pigioni e sulle tasse da parte di certi parenti suoi, che il barone avrebbe in seguito provveduto a sanzionare. Non aveva ancora piena contezza del bene e del male. Tale candore impediva ogni resistenza e le consentiva di cogliere la verità delle cose umane.
Poi c’era stata Juliette.
Anche a distanza di anni, il ricordo riaccendeva l’inquietudine.
Era una ragazza minuta, già alle soglie della pubertà, in attesa di andare incontro al proprio destino: essere impalmata da un fosco pecoraio e sfornare figli fino a morirne. Era molto devota alla Madonna e ai santi. È molto bella, per quanto possa esserlo una contadina del Massiccio Centrale. Aveva profondi occhi neri e denti ancora buoni. Il naso era piccolo e dritto, così diverso da quelli dei villici.
Steso immobile sulla branda, nella sua cella a Bicêtre, Laplace provò a figurarsi come il lavoro e le gravidanze avessero devastato quel corpo durante gli anni trascorsi. I ricordi erano una cosa meravigliosa: nessuno poteva rovinarli, erano ben custoditi nella mente, presidiati dalla volontà, e poteva tirarli fuori ogni volta che voleva rimirarli. Juliette era uno di questi. Un diamante grezzo.
Durante le magnetizzazioni la mente della ragazza si volgeva verso l’assoluto, come se vagasse in una sorta di Grande Altrove, in cerca del sorriso di Dio. A volte lo trovava, perché sorrideva di rimando. A quel punto era facile farla parlare. Poteva diagnosticare i malanni suoi e quelli del mondo. Juliette attingeva a una verità ancora più profonda di quella della piccola Noèle, parlava dei destini umani, mescolando i sermoni della domenica alle fantasie giovanili. Era una meraviglia: Laplace restava ad ascoltarla per ore. Aveva preso l’abitudine di magnetizzarla usando come polo di contatto la punta del suo naso, sulla quale poggiava l’indice, mentre con l’altra mano toccava la schiena. Juliette parlava di Nostro Signore e ogni seduta era un passo che l’avvicinava a Lui. E a Laplace.
Puységur gli aveva sconsigliato di operare sugli infanti. «Essi sembrano richiedere uno sforzo minore, più consono all’apprendista, e invece esigono uno straordinario controllo, se si vuole evitare di turbarne l’equilibrio per sempre». Laplace, benché avesse deciso di non seguire quel suggerimento, aveva continuato a scrivergli, a far domande, a illustrare dettagli delle sue sedute con i piccoli pazienti. Finché Puységur non gli aveva intimato di interrompere il trattamento con Juliette, oppure la loro corrispondenza.
Laplace si era ribellato: quel grande scienziato pensava davvero che la sua fosse lussuria? Non capiva che c’era in gioco ben altro? Erano su una soglia, qualcuno doveva trovare il coraggio di compiere il primo passo nel Grande Altrove che si spalancava innanzi a loro.
Non aveva più ricevuto risposta, e qualche settimana più tardi aveva abbandonato le cure della piccola Juliette. Non per riconciliarsi con Puységur, ma per dedicarsi con tutte le forze a un nuovo caso. Un vero e proprio dono del cielo.
Jean. Un bambino senza famiglia e senza casa che viveva dell’elemosina dei paesani. Orfano e disprezzato, in cerca di qualcuno che lo accogliesse. Se Juliette era un diamante, il ragazzo era una perla rara.
Jean era la materia che Laplace aveva sempre desiderato plasmare.
Il suo capolavoro.
Poi il barone aveva dovuto rispondere alla chiamata del re, ignaro che gli stati generali avrebbero dato inizio alla fine. Laplace lo aveva seguito a Parigi, da cavaliere devoto qual era. La sua nobiltà era stata conquistata con la spada e tale spada sarebbe rimasta al servizio dei suoi signori. Almeno così aveva pensato allora. Poi, in una manciata di mesi, tutto era precipitato nel baratro e i due si erano ritrovati in esilio, lontano dalle loro terre, con l’unica scelta di un disperato arrembaggio. Il barone e il suo cavaliere avevano combattuto insieme a Valmy. Insieme avevano perduto, e ancora insieme avevano tentato di salvare il passato, con un ultimo, ridicolo assalto al futuro: la congiura per liberare Luigi. Solo a quel punto le loro strade si erano separate.
No, il passato da salvare non era quello dei Capeto e dell’antico regime. Occorreva risalire molto più indietro. La rivoluzione non aveva rovesciato un trono: aveva scoperchiato un sepolcro.
Per questo si era rinchiuso a Bicêtre con l’obiettivo di riprendere il cammino interrotto anni prima.
Per questo aveva trovato un nuovo Jean.
L’intuizione era stata giusta, sin dal primo momento, quando Malaprez era apparso nella sua selvatichezza. Malaprez però non era un bambino, ma un ragazzone alto e robusto, con una mente altrettanto semplice e grandi potenzialità. Lo aveva dimostrato con Cabot. Un’azione perfetta, pura forza tesa verso il fine. Chissà cosa ne avrebbe pensato Puységur. Era un grande uomo di scienza, ma si lasciava abbagliare dall’illuminismo, dal culto della ragione e della morale universale. I suoi esperimenti dimostravano senz’ombra di dubbio che il fluido magnetico è refrattario all’uguaglianza. La forza di volontà è distribuita fra gli uomini in maniera tanto difforme che nessun allenamento, studio o educazione potrebbero rimetterla in equilibrio. Eppure, egli si ostinava ad affermare il contrario e nascondeva le proprie scoperte sotto il tappeto di una teoria rassicurante.
Laplace si riscosse e percorse lo spazio che lo separava dall’inferriata della finestrella. Una leggera brezza estiva filtrava tra le sbarre. Sul piccolo davanzale campeggiava la scultura di ossi di pollo che rappresentava Marat. Laplace guardò fuori, lo scorcio del cortile e dei tetti dell’istituto. Osservarli attraverso la grata lo fece pensare a sé stesso come a quel ragno, fermo al margine della tela, in attesa. Si domandò quanto tempo ancora sarebbe occorso. Non molto: le teste dell’idra avevano già iniziato a divorarsi tra loro. Prima era toccato ai girondini. Adesso era il turno degli Arrabbiati, dei radicali. L’Incorruttibile aveva tuonato contro di loro. Assurdo come i rivolgimenti di un’epoca possano trasformare un avvocaticchio di provincia in un grand’uomo, pensò Laplace. Ovvero nella sua più seria parodia.
Sorrise tra sé, rendendosi conto di non averlo fatto da mesi. La Francia era quasi pronta.
Accostò la sedia al muro e ci sali in piedi.
Stese il braccio e afferrò il ragno tra le dita: l’addome era grosso come un nocciolo di ciliegia.
L’animale si dimenò per fuggire, riusci a mordergli un polpastrello, ma Laplace non allentò la presa.
Per allenare la volontà, ci vuole volontà.
Perciò le ineguaglianze spirituali tra gli esseri viventi sono incolmabili.
Laplace aprí la bocca e si appoggiò il ragno sulla lingua. Lo schiacciò contro il palato, mentre un rigurgito cercava di obbligarlo a vomitare l’orrido pasto. Lottò contro le otto zampe e contro sé stesso, finché la bestia non diventò un corpo inerte.
Allora deglutì, con un brivido di ripulsa e di soddisfazione. Presto avrebbe varcato la soglia definitiva, oltre la quale non c’è più ritorno.
Sarebbe andato avanti, in cerca del vero passato, come Juliette aveva cercato il suo Dio.