«Ci auguriamo che si difendano con ferocia».
Léo finì di leggere la frase e acciuffò il manifesto per un angolo incollato male. Strappò via dal muro una striscia sottile e con essa la chiosa, quella che sempre concludeva gli annunci dei combattimenti.
«Ci auguriamo che si difendano con ferocia».
Lotte fra animali, non fra uomini. Doghi contro lupi contro cinghiali.
Il campione più acclamato era un vecchio orso di nome Clodoveo, che si diceva avesse sconfitto persino una tigre.
I suoi incontri erano così seguiti che si tenevano nell’arena di legno, quella per gli eventi più grossi, da festa comandata, come le corse di tori alla maniera di Spagna.
Léo appallottolò la carta con rabbia, la gettò a terra e la spedi con un calcio a mollo in una pozza. Quindi sputò l’acido che sentiva in gola, per scongiurare il malocchio di quelle parole scellerate.
«Ci auguriamo che si difendano con ferocia».
Deputati e consiglieri tuonavano a settimane alterne contro il circo alla barriera di Pantin, quella che tutti chiamavano «dei combattimenti». C’era chi si scandalizzava per un cane sventrato e chi si arrogava il compito di educare il popolo. A Léo fregava una cippa degli uni e degli altri, ma per certo, quel pomeriggio, non s’augurava che il suo avversario si difendesse con ferocia.
Il cortile era al numero 9, in via del Granaio alle Belle, proprio di fianco alla fattoria che dava il nome alla strada, poiché da tempo ospitava non più frumento, ma baldracche.
Era il campo delle grandi occasioni, per quanto gli incontri fra bipedi fossero meno popolari di quelli fra quadrupedi.
Gli spettatori erano già in attesa: le prime due file in piedi, attorno a un quadrato approssimativo, disegnato per terra con un bastone e ribadíto agli angoli da quattro sacchi di segatura. Subito dietro, appollaiati su carri e carretti, branchi di ragazzini, vagabondi e tutti quelli che non avevano soldi da scommettere. Alle finestre, le megere del palazzo, braccia incrociate sui davanzali, e in cima ai tetti altri bipedi, ma con le piume.
Un brusio crescente salutò l’arrivo di Léo. Il pubblico dei combattimenti cominciava a riconoscerlo. La sua presenza era garanzia di spettacolo, buona tecnica e incontri prolungati, incerti, dove ci si poteva divertire ad aggiustare le puntate un minuto dopo l’altro. Bernard la Rana gli ordinò di scaldarsi.
L’attenzione di Léo era rivolta alla dozzina di giovani dorati sul lato opposto al suo. Il loro lezzo appestava l’aria, ma i gecchi non s’erano vestiti col tipico sfarzo. Indossavano abiti più comodi, meno vistosi, anche se il loro campione non aveva rinunciato alle nappe tricolori infiocchettate sotto il ginocchio, sull’orlo dei culotti biancomonarchici. Alcuni portavano sul bavero effigi di Robespierre rovesciate a testa in giù.
«Ci auguriamo che si difendano con ferocia», rimuginò Léo, mentre Bernard la Rana andava a controllare che l’avversario fosse pulito da lame o altri arnesi, e i suoi secondi facevano lo stesso con lui.
Gli spettatori sollecitarono l’inizio della sfida con incitamenti, grida e qualche ritmico battimano.
Léo sciolse i muscoli di braccia e gambe di fronte a Bernard, che gli sibilò poche parole:
– Sai cosa devi fare.
Léo alzò la mano per segnalare che era pronto. Soncourt lo imitò, scese un rapido silenzio.
– Andate! – gridò una voce.
I due lottatori guadagnarono il centro del quadrato, agili sulle ginocchia, come compassi in cerca della giusta misura.
Appena l’altro gli arrivò a tiro, Léo parti con un calcio basso alla tibia, ma di proposito non inclinò il busto all’indietro. Soncourt, da bravo campione, parò il colpo con la suola della scarpa e subito con l’altra gamba cercò il bersaglio che l’avversario gli offriva. La testa. Un calcio teso, ben portato. Léo riuscì a contenerlo col braccio e ad agganciargli per un attimo la caviglia.
Giusto il tempo di replicare con una poderosa pedata nelle palle.
II pubblico gridò sbigottito. La risposta canonica, in casi come quello, era uno sgambetto sul piede d’appoggio, per ridicolizzare l’avversario e inasprire la lotta. Ma Léo non aveva intenzione di inasprire alcunché. Agganciò la testa di Soncourt, che si era piegato in avanti a stringersi l’inguine, e gli rifilò una ginocchiata sul naso.
Soncourt gli si buttò addosso con tutto il peso, rotolarono a terra. Léo si rialzò. Soncourt rimase giù, le mani sui coglioni, il naso spiaccicato e grondante sangue.
I suoi lo soccorsero, provarono a tirarlo in piedi, ma la vertigine lo costrinse a inginocchiarsi. I secondi dovettero trascinarlo fuori dal quadrato.
L’incontro era finito.
La meraviglia del pubblico montò e svelta si converti in un ribollio di delusione.
Coitus interruptus–, alcuni non erano nemmeno riusciti a scommettere, altri avevano fatto appena in tempo a comprarsi una birra.
Meno male che i combattimenti nei cortili erano a ingresso libero, a differenza di quelli nell’arena. Altrimenti qualcuno avrebbe di certo preteso un rimborso.
I muschiatini, stretti intorno al loro campione, strillavano come pescivendole. Ingiurie all’italiano di merda e al suo popolo di truffatori. Minacce di ritorsione. Sputi.
Léo voltò le spalle agli improperi e tracannò un sorso di acquavite.
– L’incont’o va annullato! – sgolò un merveglioso col tono da avvocaticchio.
Una pioggia di voci approvò.
– Giusto!
– Ben detto!
– È da rifare!
– Ci ho rimesso due cucchi, sangueddio!
– Col zullo! – si opponevano altri, e già intorno a Bernard la Rana si andava raggrumando un capannello di rimostranti, che sbracciava e scancherava e gonfiava il petto. L’uomo, impassibile, se ne stava seduto sul suo scranno a contare gli incassi, mentre Léo, protetto da quelli che avevano puntato su di lui, beveva alla salute del grande sconfitto.
I giovani pierculi, riavutisi dallo sconcerto, smisero di strillare e si mossero in schiera compatta per protestare con l’organizzatore dell’incontro. La calca però impediva loro di raggiungerlo e presero a farsi largo con i randelli.
Allora Bernard la Rana decise di alzarsi. La ressa si schiuse al suo passaggio come di fronte a una sposa, ed egli raggiunse il centro del cortile, dove il sangue di Soncourt impastava la terra.
– Chiediamo l’annullamento dell’incont’o, – lo affrontò il più muschiato del gruppo quando se lo trovò di fronte.
– ’ivogliamo i nost’i soldi, – fece eco un compare più basso di una spanna.
– Il mio uomo ha vinto, il vostro ha perso, – li zittí Bernard. – Che c’è che non vi torna?
– Un uomo non vince con un calcio nei dioscu’i, – protestò l’altro. – È ’oba da mocciosi.
– Dove credete di essere, a Londra? Qua non ci sono colpi proibiti.
Il muschiatino si girò verso la sua teppa.
– Sentito, compa’i? Niente colpi p’oibiti.
– Buono a sape’si, – commentò ghignando uno del gruppo, mentre alzava il bastone. Gli altri lo imitarono minacciosi.
Léo osservava la scena rinvigorito dall’alcol. I muschiatini facevano sul serio, ma quando il loro capetto tornò a girarsi verso Bernàrd, si trovò la canna di una pistola puntata verso le labbra.
Il lezzoso deglutì. Ringalluzzito dalla superiorità numerica, trovò il coraggio di parlare.
– In canna hai un colpo solo.
– È tutto tuo, – disse Bernard senza battere ciglio.
Nel silenzio che segui, il capoccia dei muschiatini fece le sue valutazioni.
– Ci auguRiamo che si difendano con feRocia! – sghignazzò Léo in un brindisi solitario, levando la bottiglia al cielo.
Ma quello non era un pomeriggio fortunato per gli amanti dei duelli spettacolari, e i muschiatini, per coronarlo a dovere, decisero di battere in ritirata, senza costringere Bernard la Rana a premere il grilletto.