2.

La carrozza scendeva lenta lungo via San Giacomo. I due lati della strada erano invasi da botteghe ambulanti, ciascuna poco più di una coperta stesa per terra, e lo spazio per le vetture era di molto ridotto.

D’Amblanc osservava stupito l’accozzaglia di merci. Non vi era criterio né mestiere riconoscibile. Quello che alla prima occhiata poteva sembrare un mercante di vini, accanto ai pochi fiaschi offriva pure tagli di cuoio, legna da ardere e un sacco di farina. Un ortolano cercava di piazzare scampoli di stoffa, un carbonaio decantava la qualità dei suoi pani di zucchero, mentre sua moglie grattava la ruggine da un mucchio di attrezzi da falegname.

Dopo tre mesi lontano da Parigi, D’Amblanc ancora si meravigliava di quelle fiere improvvisate. Sulle prime, al rientro da Soissons, si era lasciato ingannare: era come se la morte di Robespierre avesse cancellato d’un colpo i problemi di approvvigionamento della capitale. Solo dopo un paio di giorni, passeggiando per il suo quartiere, il dottore aveva capito il trucco. Nessun miracolo, soltanto il mercato nero che diventava bianco, gli accaparratori che mettevano le teste fuori dalle tane perché il gladio della legge non era più li, affilato e pronto a mozzargliele.

Difatti, non è che le pance dei parigini fossero più piene di prima. Le file davanti alle macellerie erano sempre lunghe e animose. Il pane si comprava con la tessera, il sale era razionato. D’Amblanc, durante le sue passeggiate, per ben due volte si era trovato a soccorrere cittadini svenuti in mezzo alla via, il corpo ormai roso dall’inedia.

Un pomeriggio, mentre se ne stava li ad assistere un vecchio, cinque bulli s’erano avvicinati per dirgli di lasciar perdere, perché quello era un noto ubriacone, uno che si sbronzava col miglior vino dopo aver pasteggiato con fricassea, involtini e ananas. Erano tipi tutti agghindati, coi capelli boccoluti e coperti di cipria. Uno indossava addirittura una vistosa parrucca. Avevano il collo fasciato di seta, baveri e camicie di colori sgargianti, fiocchi alle ginocchia, scarpe col tacco, guanti in pelle e bastoni da passeggio nodosi. Ostentavano la mancata pronuncia della erre.

– Inc’edibile, un alt’o ub’iaco, – ripetevano con voce chioccia e crasse risate, assai divertiti dalla geniale ironia di rinfacciare gozzoviglie a un morto di fame.

D’Amblanc ricordava di aver visto gente vestita a quel modo soltanto sotto i colonnati del Palazzo Egualità, ma in poco tempo si erano riversati su tutti i viali, come se fino ad allora fossero rimasti nascosti, in attesa di un segnale convenuto.

Il dottore ne scorse un drappello davanti al portone della chiesa di San Dima. Uno di loro s’era arrampicato su una scala. Gli altri, da sotto, gliela reggevano in posizione. Armato di mazzuolo, il tizio smartellava l’inscrizione sopra l’architrave: «Il popolo francese riconosce un Essere Supremo e l’immortalità dell’anima». Nel frattempo, lo stesso popolo francese scemava d’intorno, alzava gli occhi attirato dal rumore e poi li riabbassava indifferente, magari per dedicarsi al gioco più in voga, quello di staccare dai muri brandelli di manifesti firmati da persone ormai decollate. Un Brissot si scambiava per tre Saint-Just. Un Danton per quattro Hébert.

Un secondo gruppetto azzimato lavorava di scalpello per grattare via dal muro di un palazzo le parole «o la morte» dopo la triade «Libertà, Egualità, Fraternità». Poco oltre, una scritta recente, in vernice rossa, annunciava:

ARRIVA L’ARMATA DEI SONNAMBULI!

D’Amblanc si domandò il senso dell’avvertimento. Forse una critica nei confronti del nuovo corso della rivoluzione?

La carrozza s’impuntò in una brusca frenata e dovette accostare per consentire il passaggio ad altre due in direzione opposta. Anche il numero delle vetture era un aspetto nuovo della nuova Parigi: ne circolavano di più, e i ricchi avevano ripreso a usarle persino per brevi spostamenti, come segno per distinguersi dal volgo.

D’Amblanc, invece, aveva noleggiato la sua per visitare un luogo appena fuori città, troppo distante per recarvisi a piedi.

L’ospedale dei folli di Bicétre.

Pochi giorni prima, di ritorno a Parigi, aveva trovato ad attenderlo una lettera del dottor Pinel, datata secondo il vecchio calendario, addi 9 di aprile 1794. Il collega, un medico stimato e molto attento, gli domandava consulenza rispetto al caso di un alienato, che sembrava capace di controllare la volontà degli altri ospiti anche a distanza. Dalle parole del mittente non si capiva se quella distanza fosse da intendersi in senso spaziale – cioè da lontano – oppure temporale – cioè con effetto ritardato – oppure entrambe. Sia come sia, D’Amblanc si era affrettato a organizzare la breve trasferta. Aveva lasciato Jean nell’osteria sotto casa, a mondare verdure insieme alla cuoca, e sperava che il ragazzino selvaggio non scegliesse proprio quel pomeriggio per compiere una delle sue sortite.

– Purtroppo, il caso di cui vi scrivevo non è più qui.

Philippe Pinel si accomodò sulla sedia, raggruppò un mazzo di fogli battendolo due volte sulla scrivania, quindi lo girò e lo fece scivolare sotto gli occhi del collega.

D’Amblanc lesse l’intestazione, in alto al centro.

AUGUSTE LAPLACE

nato a Aurillac il 18 marzo 1752, di professione artista.

Ricoverato a pensione il 26 gennaio 1793.

Dimesso per fuga il 10 termidoro dell’anno II.

– Fuggito, come vedete. E in una maniera piuttosto singolare. I sorveglianti lo hanno lasciato passare convinti di avere di fronte... me.

– Voi?

– Si, proprio io. E vi assicuro che nessun travestimento può aver ingannato quegli uomini, persone che mi frequentano più spesso di mia moglie.

– Credete che sia ricorso al magnetismo?

– Questa è una domanda che avrei preferito rivolgervi io stesso. Come sapete, non sono un ammiratore delle dottrine di Mesmer. Ho fatto pratica da un suo discepolo, quand’era di moda, e ne ho ricavato soltanto qualche incontro galante.

D’Amblanc storse la bocca di fronte al cliché del magnetista seduttore. Pensò agli sforzi compiuti per non confermarlo. Pensò alla nuca e alle spalle della signora Girard...

– A ogni modo, – continuò Pinel, – è evidente che Auguste Laplace aveva un potere di suggestione fuori del comune, che lo si attribuisca o meno al fluido universale.

D’Amblanc si armò di taccuino e matita, scrisse due righe di appunti, domandò lumi sulla questione del controllo a distanza. Pinel spiegò che gli alienati agivano sotto l’evidente influsso di Laplace anche quando questi non era presente. Paragonò i suoi ordini a ordigni, piazzati nell’animo altrui e capaci di esplodere giorni più tardi, come innescati da una scintilla invisibile. Quindi espose i fatti salienti che aveva osservato o che gli avevano riferito, e al termine della prolusione invitò il collega a leggere il fascicolo dell’alienato, dove senz’altro avrebbe trovato ulteriori dettagli.

D’Amblanc tornò a fissarne l’intestazione.

AUGUSTE LAPLACE

nato a Aurillac il 18 marzo 1752, di professione...

Aurillac.

D’Amblanc batté l’indice sul nome.

Aurillac. Sul Massiccio Centrale. In Alvernia.

– C’è qualcosa che non va, cittadino? – chiese Pinel.

O meglio, in quella che prima della rivoluzione era la provincia d’Alvernia, e adesso era suddivisa nei dipartimenti del Poggio Domo e del Cantal.

Dipartimento del Cantal. Capoluogo: Aurillac.

Dove D’Amblanc e la sua scorta erano pronti a condurre il prete Clément per consegnarlo alla giustizia.

– Cittadino...

Clément che aveva abusato di una ragazza in stato di sonnambulismo. Sonnambulismo che si manifestava in modo ricorrente, anni dopo le... cure magnetiche ricevute.

A distanza.

Aurillac, luogo di nascita di Auguste Laplace.

Un folle. Alverniate. Esperto di controllo a distanza.

D’Amblanc pensò a Jean del Bosco. Prima orfano. Poi nobile. Poi il suo benefattore se n’era andato a Parigi. Pochi giorni dopo, Jean si era trasformato in un selvaggio.

Pochi giorni dopo.

A distanza di tempo e di spazio.

Un ordine che esplode nella testa come un ordigno.

Senti il palato farsi asciutto come polvere. Deglutì a fatica.

– Questo Auguste Laplace, – domandò, – aveva con sé una carta civica che ne attestasse l’identità?

– Nel fascicolo non l’ho mai vista, – dichiarò Pinel, la fronte corrugata. – Ma i pensionanti come lui entrano con una semplice richiesta di ricovero firmata da un medico.

D’Amblanc domandò se fosse possibile esaminare la richiesta di ricovero del cittadino Laplace.

– Perché vedete, – aggiunse, – il caso che mi avete descritto ricorda quello di un alverniate, il cavaliere d’Yvers. Un uomo capace di condizionare gli individui contro la loro stessa volontà, e forse persino a distanza. Di lui so soltanto che venne a Parigi nell'89, per gli stati generali. Non un folle, ma uno che potrebbe aver trovato rifugio in un ospizio per folli.

– Di certo non era un alienato come tutti gli altri, – ammise Pinel. Quindi si alzò. – Vado a chiamare il governatore Pussin, – disse mentre già apriva la porta.

I suoi passi affrettati echeggiarono nel corridoio.

Orphée d’Amblanc si gettò a capofitto sul fascicolo di Auguste Laplace.

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