Il sibilo del rampino che fendeva l’aria attraversò il silenzio notturno. L’ampio gesto circolare del braccio precedette il lancio verso il ciglio del muro, poi un rumore secco quando il ferro agganciò i mattoni. L’uomo mascherato saggiò la tenuta della corda, quindi prese a salire, puntando i piedi sulla parete e issandosi a forza di braccia. Una volta in cima si mise in equilibrio sul muro, ritirò la corda e fece ancora volteggiare il rampino per lanciarlo sull’edificio accanto. Il primo tentativo andò a vuoto, ma al secondo agganciò il cornicione. Riprese la scalata.
Da qualche tempo Scaramouche esplorava percorsi attraverso i tetti, che gli consentivano di spostarsi al di sopra del livello stradale. In un paio di occasioni dileguarsi in verticale non solo gli aveva evitato d’essere inseguito, ma aveva anche contribuito a incrementare la leggenda di Scaramouche. Qualcuno giurava di averlo visto saltare su un tetto, grazie a speciali molle applicate sotto le suole.
Quella sera, però, Léo sentiva anche il bisogno di guardare le cose dall’alto, indisturbato. Ne era passato di tempo, da quando si esercitava col rampino nel cortile della Gran Pinta. Adesso era più forte, più agile, saliva senza esitazioni. Merito degli allenamenti di Bernard la Rana, e forse anche di una rinnovata acutezza dei sensi e della mente. Questa volta non c’era alcuna effrazione da compiere, nessun monopolatore da castigare. E non c’era nemmeno più La Gran Pinta. Férault ci era morto dentro bruciato. Era un buon diavolo, uno di quelli che l’avevano aiutato quando stava col culo per terra, dandogli vitto e alloggio. Una fine orribile.
Bastardi.
Raggiunta la cima, ritirò la corda, la arrotolò e la legò in cintura. Riprese fiato, contemplando la distesa dei tetti di Parigi. La notte era limpida, la luna mostrava la sua faccia tonda, appena velata da rade nuvole. Una brezza lieve muoveva i lembi del mantello. Léo camminò con cautela fino a un piccolo gruppo di comignoli. Li in mezzo si sentì al sicuro, indistinguibile dalle ombre della notte, come un gatto o un uccello notturno.
Stavolta i sonnambuli avevano fatto le cose in grande. Avevano colpito il cuore di Sant’Antonio. Un morto. Férault. Svariati feriti. Persino un ragazzino, Bastien.
Il figlio di Marie Nozière.
Bastardi.
Laggiù da qualche parte, oltre la selva di comignoli, riposava Madama Ghigliottina. Di giorno seguitava a funzionare, ma a cadere non erano le teste dei muschiatini. La Macchina non aveva più la stessa presenza scenica, rifletté Léo. Era come se... Come se ci si fosse assuefatti alla sua presenza. Le cose mutavano in fretta, lo scenario cambiava, e perfino gli attori, ma la ghigliottina non era in grado di variare l’unica battuta, quel suono sordo e greve, che tutti ormai conoscevano sin troppo bene.
Si sfilò la maschera e la tenne fra le mani, rimirando il profilo minaccioso del rostro, gli occhi tondi come quelli di un gufo.
Si figurò il cartellone: «Scaramouche contro l’Armata dei Sonnambuli». Da solo contro cento. Le sue Termopili. Del resto, non si chiamava Leonida?
Sollevò lo sguardo sulla città. Parigi come palcoscenico, forse per l’ultima volta.
Si chiese quanto ancora sarebbe riuscito a variare sul canovaccio che stava seguendo, prima che lo ammazzassero.
Si trovava forse nell’angolo? Incantunè? Si chiese se là sotto, da qualche parte, non vi fosse qualcun altro disposto a unirsi a quella causa persa.
Forse no. Perché a rifletterci bene, Léo doveva ammette– . re che la sua era una partita privata. Non era la rivoluzione ad averlo deluso, come era capitato a tanti, ma la vita stessa. Tutte le aspettative – i sogni di quand’era bambino a Villa Albergati, fin dal giorno in cui si era ritrovato sulle ginocchia del maestro Goldoni – erano sfumate. Alle sue spalle si dipanava una sequenza di volti perduti. Mingozzi, Goldoni. .. le persone che gli avevano dato qualcosa li a Parigi: Colette, Férault, la sartina Marie, Andria, e poi Bernard la Rana, Adèle; i suoi avversari sul quadrato: Jean-Do, Soncourt; infine i nemici: gli odiosi giovani dorati... e l’Armata dei Sonnambuli.
Eccolo li, in cima a un tetto, a studiare il modo di aggredire e rapinare. In nome di cosa?
Guardò il cielo nero. Chissà se esisteva un destino fissato negli astri. Chissà quale finale l’Essere Supremo aveva in serbo per lui. La coscienza gli diceva che non sarebbe stato niente di buono, ma la testaccia – il nominepatris, come dicevano a Bologna – ribatteva che il colpo andava restituito, proprio come sul quadrato, e doveva essere all’altezza di quello subito. A buon gatto, buon ratto. Alla battuta dell’antagonista, il protagonista doveva rispondere riprendendosi la scena.
Léo si mosse. Si spostò agile sulla costa del tetto e procedette così, in cerca di un confine da superare.
CONVENZIONE NAZIONALE
Estratto dalla seduta del 12 frimaio, anno III
mathieu Cittadini, a nome del comitato di sicurezza generale, intendo dare
la più formale smentita ai resoconti calunniosi e monarchici inseriti nei fogli pubblici da alcuni giorni. Il comitato viene rappresentato come se avesse dato dei precettori ai figli di Capeto, prigionieri nel Tempio, e offerto loro cure paterne per assicurarsi della loro sopravvivenza ed educazione.
All’epoca del 9 termidoro, il comitato ha piazzato al Tempio un secondo guardiano fisso, perché uno solo gli è parso insufficiente. E poiché la permanenza di due individui allo stesso posto può far nascere il rischio della corruzione, il comitato ha stabilito che ogni giorno le quarantotto sezioni di Parigi forniscano un loro membro per assolvere, nel corso di ventiquattr’ore, alle funzioni di guardiano insieme agli altri due. Da ciò si deduce che il comitato di sicurezza generale non ha mirato ad altro che a un servizio di sorveglianza e dunque è estraneo all’idea di migliorare la cattività dei figli di Capeto, o di dar loro dei precettori. Il comitato e la Convenzione, infatti, sanno come si fa cadere la testa dei re, ma ignorano come educarne la prole.
CONVENZIONE NAZIONALE
Estratto dalla seduta dell’8 nevoso, anno III
lequinio Già da diversi giorni è chiaro a tutti che i malintenzionati e
perfidi monarchici preparano una nuova azione. Voi non imporrete mai il silenzio ai realisti, se non li priverete dell’unica speranza che resta loro: sto parlando dell’ultimo rampollo della razza impura del tiranno, che sta al Tempio. [Applausi] Già altre volte si è chiesta l’espulsione del fanciullo dalla Francia; io domando che i nostri comitati ci presentino un rapporto sul modo di purgare il suolo della libertà dall’unica vestigia regale che vi resta.