Gli restava un solo abito elegante, cimelio del tempo prima della rivoluzione. Non lo indossava da allora. Gli sarebbe sembrato ridicolo sfoggiarlo in quei tempi di penuria, e poi non voleva rischiare di rovinarlo in caso avesse dovuto impegnarlo o venderlo. Certo non avrebbe mai pensato che sarebbe tornato utile per quell’occasione.
Jean lo osservò mentre indossava la giacca. Gli stava appena un po’ larga. Negli ultimi mesi era dimagrito. Come tutti, del resto.
– Siete molto elegante, signore.
– Grazie, Jean.
D’Amblanc si spostò davanti al piccolo specchio appeso alla parete per sistemare la cravatta.
– Dove andate di bello?
– A una festa alla quale non mi hanno invitato.
Il ragazzino assunse un’aria pensosa.
– Non è una cosa corretta, vero?
– Decisamente no, – rispose D’Amblanc con il mento in alto, mentre armeggiava col nodo.
– Pensate che vi lasceranno entrare grazie al vestito?
D’Amblanc sorrise.
– Non credo proprio –. Fece qualche passo nella stanza per riprendere confidenza con quell’abbigliamento, simulò un inchino. Jean rise. – Dovrò inventarmi qualcosa.
– Perché non mi portate con voi, signore?
D’Amblanc gli scompigliò i capelli con la mano.
– Non credo proprio che i ragazzini siano ammessi... E smettila di chiamarmi signore.
Jean si scusò e andò a prendergli il cappello.
Lui lo calcò sulla testa. Poi guardò Jean dall’alto in basso.
– Non aprire a nessuno. Tornerò presto.
Palazzo Thellusson era la dimora di una famiglia di banchieri svizzeri. Inconfondibile: al giardino all’inglese della villa si accedeva attraverso un enorme arco che campeggiava di fronte all’imbocco di via d’Artois. Le carrozze passavano sotto la volta e scaricavano gli ospiti davanti al colonnato.
D’Amblanc raggiunse il luogo a piedi e rimase a lungo a studiare la fauna che scendeva dalle vetture, imbacuccata nei pastrani eleganti, che riparavano dall’aria pungente d’autunno. Erano facce di mercanti, investitori di borsa, e – avrebbe scommesso – nobili appena reintegrati o risarciti dei propri beni e delle confische della Repubblica.
Nei giorni precedenti, D’Amblanc era andato in cerca delle voci di strada e aveva scoperto che per ricevere l’invito al Ballo delle Vittime era necessario avere avuto almeno un parente ghigliottinato. Si rendeva omaggio ai propri morti, ma al tempo stesso si festeggiava lo scampato pericolo.
D’Amblanc pensava che ci fosse qualcosa di osceno in tutto ciò. Tuttavia la domanda che lo assillava era perché Chauvelin avesse ricevuto l’invito. Era certo che non avesse avuto parenti ghigliottinati. E soprattutto era un funzionario del comitato di sicurezza generale. Che c’entrava con quella gente? Era scampato alle epurazioni dopo la caduta di Robespierre, e si era subito riciclato con il partito vittorioso. La rivoluzione continua, non è successo niente.
Il sospetto di D’Amblanc si era fatto strada e si era trasformato nella volontà di trovare una risposta ai suoi dubbi.
C’era qualcosa in Chauvelin, una reticenza che aveva colto fin da quando era tornato dalla missione in Alvernia, e che adesso gli appariva come l’indizio di una colpa.
Si avvicinò all’ingresso senza fretta, rimanendo discosto, in attesa di accodarsi ad altri. Oltre la grande soglia, gli invitati mostravano l’invito al maggiordomo e consegnavano pastrani e cappotti ai domestici.
D’Amblanc notò che gli uomini portavano una fascia nera al braccio, oppure vestivano di nero dalla testa ai piedi, come se, anziché a un ballo, stessero andando a un funerale. Le dame erano acchittate in fogge curiose. Alcune avevano al collo un nastro rosso sangue; altre avevano il volto e il petto talmente cosparsi di cipria bianca da sembrare cadaveri ambulanti. Tutte avevano le spalle scoperte e i capelli raccolti in alto sopra la nuca. Gli uomini avevano tagliato il colletto della camicia e anche il codino, in favore di acconciature alla Bruto. O piuttosto alla Tito, come si era preso a chiamarle adesso.
Non era difficile capire quale fosse il tema della serata.
La decollazione.
Nell’andito, D’Amblanc notò che gli invitati si salutavano inclinando il collo con uno scatto brusco. Un altro macabro sberleffo alla ghigliottina.
Da una delle carrozze scese un uomo corpulento, con un cappello sul quale spiccava una coccarda tricolore. Appena lo riconobbe, D’Amblanc pensò che non avrebbe avuto un’altra occasione. Lo affiancò e si esibì in un mezzo inchino.
– Il cavaliere di Sauvigny...
L’uomo strizzò gli occhi e si fece più vicino, quindi allargò un sorriso.
– Buon Dio, Orphée d’Amblanc... Siete proprio voi?
– In persona, – rispose D’Amblanc nel tono più affabile.
– L’ultima volta che ci siamo visti è stato prima...
La frase si spense davanti all’incertezza del ricordo, o piuttosto, pensò D’Amblanc, all’eventualità di nominare gli anni trascorsi senza conoscere come li avesse spesi l’interlocutore.
– Prima che Mesmer lasciasse Parigi, – terminò D’Amblanc, togliendo l’altro dall’imbarazzo.
– Buon Dio, si, – ribattè il cavaliere con sollievo. – Sono almeno sette anni. Da tanto non mi immergo in una vasca magnetica. Chi l’avrebbe detto che ci saremmo ritrovati qui! Anche voi avete avuto una perdita?
D’Amblanc sperò di non essere del tutto cane come attore.
– Mio fratello Homère.
L’altro si esibì in un’espressione di profondo rammarico.
– Ne sono addolorato. Capisco il vostro stato d’animo. Ho perduto mio cognato appena l’anno scorso.
D’Amblanc non commentò, e annuì con aria grave.
– Venite, entriamo insieme, – disse il cavaliere di Sauvigny.
Ci siamo, pensò D’Amblanc. Era il momento di ritirare l’amo.
– Purtroppo ho perso il mio invito. Temo che dovrò rinunciare.
L’omone lo prese a braccetto.
– Volete scherzare? Entrerete con me. Conosco personalmente la famiglia Thellusson. Sono un loro devoto debitore. Venite.
D’Amblanc si lasciò trascinare dentro, senza darsi il tempo di ringraziare la buona stella di Franz Anton Mesmer e il sacrificio di un fratello che non aveva mai avuto.
Si inoltrò in mezzo agli invitati che affollavano la grande sala da ballo, chiacchierando amabilmente con il cavaliere di Sauvigny, e insieme a lui andò a presentare i propri omaggi ai padroni di casa.
Lo spettacolo di tutte quelle persone vestite a lutto, o meglio, travestite da aspiranti cadaveri, era inquietante. Le risate, su quelle bocche pallide o violacee, erano ghigni, ragli, ruggiti, e sembravano voler dire: «Siamo ancora qui, guardate i nostri candidi colli, guardate le nostre testacce ancora bene attaccate, siamo vivi, siamo sopravvissuti al Terrore e adesso il Terrore siamo noi»..
La musica suonava stonata ed era come se i ballerini seguissero un altro ritmo, che martellava solo nelle loro orecchie. Danzavano una carmagnola, imitando i poveracci che avevano danzato sotto la ghigliottina.
D’Amblanc attese che il cavaliere di Sauvigny venisse distratto da altri ospiti, poi si defilò. Vagò tra smorti lazzi e sorrisi macabri. Infine si fermò accanto a una colonna.
Fu allora che colse un profumo.
Non lo aveva dimenticato. Anche se era trascorso molto tempo dall’ultima volta che l’aveva sentito.
Gelsomino.
Inconfondibile.
Pensò che poteva ancora andarsene senza voltarsi. Bastava puntare l’uscita e nessuno si sarebbe mai accorto di nulla. Invece si girò sapendo in anticipo che il presentimento che lo aveva spinto fin lì stava per trovare conferma. Colse il riflesso delle luci sulla chioma castana. Anche lei lo stava guardando, ben salda al braccio del suo cavaliere. Incredula.
D’Amblanc avanzò verso di loro.
Cécile Girard indossava un abito grigio, sobrio ed elegante. I tratti del viso apparivano appena induriti. Dai tempi più che dal tempo, avrebbe detto D’Amblanc. La scollatura lasciava scoperta la parte superiore del seno e il collo eburneo, cinto da una sottile sciarpa di raso rosso.
Ecco una persona che aveva diritto a stare li. Al contrario dell’uomo che l’accompagnava. Quest’ultimo, evidentemente, aveva ricevuto l’invito in quanto suo cavaliere.
D’Amblanc piantò gli occhi in faccia a Chauvelin, che impallidi senza bisogno di cipria.
Decise di ignorarlo e tornò a guardare la signora Girard.
Lei parlò in tono fermo.
– Mio caro Chauvelin, volete essere così gentile da lasciarci per qualche istante?
Il commissario non parve nemmeno cercare un motivo per protestare. Si allontanò, limitandosi a non perderli di vista.
D’Amblanc gli diede le spalle, non lo voleva nel campo visivo.
– Siete sempre rimasta a Parigi, dunque, – disse rivolto alla donna.
– No, – rispose. – Vivo in una casa poche miglia fuori città, nei pressi della foresta di Fontainebleau. Mio marito l’aveva acquistata prima di essere arrestato.
D’Amblanc registrò l’informazione come fosse il sintomo di un paziente.
– È li che ricevete le visite del vostro cavaliere?
La donna tacque, valutando la freddezza della domanda.
– Voi siete svelto a giudicare, – disse infine.
– I tempi lo richiedono, – ribattè D’Amblanc.
– Richiedono anche che una donna abbia qualcuno che la protegga, – si difese lei.
D’Amblanc non intendeva cedere di mezza spanna, non dopo essere giunto fin li, per smascherare l’imbroglio.
– Qualcuno come il persecutore del proprio marito?
La signora Girard ricevette l’affondo senza mostrare alcuna pena per sé stessa. Né per l’uomo che aveva davanti.
Tutt’attorno la festa proseguiva, ma come fosse in un altro luogo, i tetri cachinni degli invitati giungevano sordi.
– Ditemi: chi altri? – disse la signora Girard. – Voi ve ne siete andato. Non mi avete chiesto di venire con voi né di aspettarvi. Mi avete detto addio invece di dirmi la verità.
– Quale verità? – chiese D’Amblanc.
– Che mi amavate, – rispose lei. – Non è così? E adesso volete solo condannarmi, come un qualunque spasimante deluso. È la storia ad avervi deluso, amico mio. Non scaricatene il peso su di me. Ho già il mio da sopportare.
D’Amblanc strinse i denti. Il prurito alle cicatrici era fastidioso, costante.
– Voi non sapete nemmeno cosa sia portare un peso, –sibilò. – Tenetevi il vostro protettore. Festeggiate d’averla scampata. Ma quelli che sono stati ghigliottinati, fossero nel giusto o nel torto, sono morti per un buon motivo, non sono vissuti per... – Indicò la scena che li circondava e da cui erano temporaneamente avulsi. – Per niente.
– Forse dovrei rimpiangere di non essere finita al patibolo con mio marito, – rispose la vedova Girard. – Dio solo sa quanto avrei voluto essere Olympe de Gouges. Sono riuscita soltanto a essere la vedova Girard. E voi? L’avete trovato il vostro buon motivo?
D’Amblanc non rispose, ma impresse bene il suo volto nella mente. Voleva ricordarla così. Altera, triste, meravigliosa.
– Vi auguro la miglior fortuna, – disse secco. Quindi prese congedo, attraversò la sala, satura di musiche e voci, per raggiungere l’uscita. Non sopportava più di stare li dentro.
Recuperò il pastrano e proprio nell’andito venne raggiunto da Chauvelin.
L’occhiata che D’Amblanc gli lanciò dovette essere eloquente, perché il commissario si mantenne a una certa distanza. Nondimeno D’Amblanc dovette riconoscergli un certo coraggio a presentarsi ancora davanti a lui.
– Ora è chiaro il motivo della vostra reticenza, – disse.
Il commissario si avvicinò di mezzo passo.
– Mi chiedeste di fare ciò che era nelle mie possibilità per salvarla, – disse.
D’Amblanc senti montare la rabbia e la voglia di colpirlo al volto. Strinse i pugni. Le cicatrici adesso bruciavano.
– È così che tenete a bada la vostra coscienza? – disse.
– La verità è che mi avete tenuto all’oscuro della sua sorte. Ognuno dunque scelga la propria.
Chauvelin scosse la testa.
– Ascoltatemi, D’Amblanc. Per quanto adesso possiate disprezzarmi, quello che vi dò è un consiglio sincero. Non andate a caccia di guai. Un ingegno come il vostro è sprecato dietro la pista che seguite. Potete solo danneggiare voi stesso. Non servirà a niente.
Sì, pensò D’Amblanc, il tono era sincero. Era quasi disposto a credere alle sue intenzioni, sebbene nascessero dalla cattiva coscienza.
– Vi sbagliate, – disse. – Restiamo soltanto quell’uomo e io. Se lui esiste è perché quelli come me e voi non hanno voluto vedere. Non commetterò lo stesso sbaglio due volte.
Ecco un buon motivo, pensò, mentre girava sui tacchi e usciva da Palazzo Thellusson senza più voltarsi indietro.