4.

– Si chiamava Carlo Coralli e di professione era il segretario del marchese Albergati, ma nel tempo libero si dilettava col teatro, recitava. Bravino, ma non eccelso. Ha recitato pure qui a Parigi, al Teatro degl’Italiani... Adesso è morto, puvrâz. Aveva sei, sette anni più di me. Io quattordici e lui una ventina. Questo Coralli s’era innamorato della nipote di Antonio Sacco, un grande attore. E siccome voleva starle vicino, aveva convinto il marchese a scrivergli più d’una raccomandazione, grazie alle quali si era fatto assumere nella compagnia del Sacco, a Venezia, e io per questo lo amavo come la scabbia. Invidia? Certo. Ma per quel calcio in culo, mica per il talento. Insomma il Coralli è in partenza per Venezia, e prima di congedarsi dalla Villa, come ultima prova d’attore, domanda al marchese di recitare una commedia di Goldoni: La burla retrocessa nel contraccambio. «Perché proprio quella?», chiede l’Albergati. «È un Goldoni mal riuscito. Il maestro l’ha pure riscritta, in veneziano e col titolo cambiato, ma il pubblico del San Luca l’ha fischiata con le quattro dita». Coralli ribatte che l’opera invece è sopraffina, tutto sta nel recitarla in un certo modo, e lui quel modo lo ha colto, dopo mesi di studio. Il marchese allora accetta, fanno le prove, e io devo ammettere che mi sbudello dal ridere, e quando poi la mettono in scena, per i pierculi amici dell’Albergati, è tutto un complimentarsi col Coralli e un dirsi certi che farà gran carriera. Da quel giorno, La burla è diventata il mio chiodo. L’ho letta e riletta, e ogni volta mi veniva in mente una nuova trovata, una nuova mimica o un’intonazione, per recitarla meglio di Coralli, e tirar fuori il comico da indove lui non c’era riuscito. Ho letto il testo in veneziano, I chiassetti del carneval, una fatica bestia. Ho piluccato un po’ qua e un po’ là, ho mescolato alcune battute, le ho provate per anni quasi tutte le sere, e quando il marchese ha cominciato a darmi delle particine, dei ruoli da servo e da comparsa, ho sognato che prima o poi ce l’avrei fatta, a recitare La burla, e a dimostrare a tutti che ero più bravo del Coralli. Però capisci, non è che potevo andare dal marchese così, a bruciapelo, e domandargli se avesse voglia di mettermi alla prova su quel testo, già era molto se mi faceva salire sul palcoscenico ogni tanto. E così sono passati gli anni, finché un giorno vengo a sapere che in un teatro di Bologna si recita una commedia veneziana di Carlo Goldoni: Chi la fa l’aspetta, o sia, La burla vendicata nel contracambio fra i chiassetti del carneval. Vacca boia, mi son detto, questa non me la perdo sicuro, e raggranello i danari per due mesi interi: perché di solito andavo alle prove, mica alle recite vere, e invece stavolta no, stavolta voglio vedere la prima, a costo di dormire sotto un portico e di tornare a Zola la mattina. Insomma vado. Entro. Mi piazzo in mezzo al pubblico in piccionaia. Si apre il sipario. Nel ruolo del protagonista c’è Norberto Rizzi, mai sentito nominare. Io sono lì, rapito dall’emozione, pronto a recitare col cuore ogni battuta, e a misurare lo scarto tra l’interpretazione di Rizzi e i mille segreti che soltanto io, nel mondo, ho saputo cogliere in quel testo così bistrattato. Io sono lí, Norberto Rizzi è sul palco, dà le prime battute, e mi rendo conto da subito che il suo stile, la mimica, i gesti del corpo, il tono della voce, sono proprio i medesimi che ho visto e rivisto nello specchio in tanti anni di recite a me stesso! Con una differenza: Norberto Rizzi è veneziano, dosa il dialetto alla perfezione, mescola l’italiano della Burla col vernacolo dei Chiassetti, e la sua pronuncia è un canto di sirena. Seconda differenza: Rizzi, al posto del mio specchio, ha una platea di gente che ride a pancia sbottonata, si diverte, applaude, fa chiamate a scena aperta, e a ogni nuovo incidente l’ilarità si fa più clamorosa. È come se Rizzi avesse carpito i miei segreti! Io lo ammiro in preda alla febbre, sbigottito, straziato dalla scoperta che quel tizio sul palco sono io, ma io non posso essere quel tizio sul palco. Giunti all’ultimo atto, dimostra pure di saper danzare e cantare, laddove io, da regista di me stesso, avevo pensato di omettere balli e canti perché mi vengono male. Un trionfo. Un quarto d’ora di battimani. Le signore della Bologna nobile, i gianfotti delle smerde famiglie senatorie, tutti si domandano come mai una pièce così fenomenale sia rimasta sepolta per vent’anni. Io tremo, ho la bocca secca, mi sento come se il Reno in piena mi avesse trascinato per dieci miglia in balia della corrente. Decido, in uno slancio di passione, che devo incontrare Norberto Rizzi, devo parlargli, abbracciarlo, dirgli che è mio fratello gemello. Fuori dal teatro c’è calca. Si attendono soprattutto le attrici, anche loro superbe nelle parti delle varie siore e della serva. Scorgo Rizzi e provo ad avvicinarmi, domando permesso, passo negli spiragli fra un corpo e l’altro, attratto come polvere di ferro da un magnete. Quando sono a tiro, allora mi sbraccio, dico: «Signor Rizzi, signor Rizzi!» Provo di farmi notare, ma tutto quel che ottengo sono le attenzioni di un signorino azzimato che mi intima di non rompere i maroni. Ma io brisa, non desisto, sento che se non parlo con quell’uomo finirò per svenire, spingo ancora, ci metto i gomiti, e tutto quel che ottengo è una manata in faccia da un altro signorino, più grosso del primo, che mi domanda se per caso deve spiegarmelo meglio lui, che non devo rompere i maroni. Io vorrei rispondere, reagire, ma in quella, il manipolo che attornia Rizzi si stacca dal resto della folla e si avvia sotto il portico, mentre io faccio giusto in tempo a sentire che son diretti a Palazzo Ranuzzi, per festeggiare il successo del primattore. Decido di seguirli, di corsa, affianco il manipolo e di nuovo mi rivolgo al mio idolo gemello, lo chiamo, quello si volta, ma un terzo signorino mi molla una spinta, mi manda per terra e con un calcio in culo dice di lasciar perdere e di tornarmene in campagna a spalare letame. Te credi che gli ho dato retta? Col zullo! Mi tiro in piedi e questa volta decido di precederli davanti al portone di Palazzo Ranuzzi, e appena li vedo comparire in fondo alla via, riprendo a sbracciarmi: «Signor Rizzi, signor Rizzi!» Il grande attore mi vede, e stavolta, distintamente, sento che esclama: «Oh, cancar! Ancora queo!» Ma uno dei signorini che ho già conosciuto gli fa segno di star tranquillo, ci pensa lui, e mi viene sotto con l’aria truce, mentre gli altri si infilano per lo scalone tra lazzi e risate. Restiamo soli io e il signorino. Lui mi offende, mi dà dello zotico, mi ordina di sparire. Gli rispondo che invece intendo aspettare Rizzi li per strada, che nessuno me lo può impedire, ma quello, per tutta risposta, alza il bastone e me lo stampa su un fianco. Io reagisco e il signorino dimostra di essere una mezzasega: le prende secche. Due belle noci alla mascella e poi un cartone al fegato, come m’ha insegnato mio padre, che poi non era proprio mio padre, ma insomma, quel colpo li me l’ha spiegato lui, e già l’avevo usato soquante volte, nelle risse in strada, e mai m’era successo quel che m’è successo li, cioè che il signorino va giù come un sacco svuotato. Forse batte la zucca sui sampietrini, perché quando mi chino per mollargli altri due ceffoni, vedo che piscia sangue da dietro l’orecchio. Stecchito. Allora via, gioco di gambe dritto filato, scappo e corro fino a Porta Saragozza e me la faccio a piedi infino a Zola, alternando corsa e marcia, come mi ha insegnato sempre il Mingozzi, cinquanta passi corri e cinquanta cammini, cinquanta corri e cinquanta cammini, avanti così per un paio d’ore. Arrivo, entro in casa, sveglio il Mingozzi e gli racconto tutto. L’ho accoppato, gli dico. Lui si stropiccia gli occhi e fa: «T’î prôpi un pajâz», sei proprio un pagliaccio. Non dice altro, non mi tira dietro le solite bestemmie, le lagne per quanto sono sgrazié, no. È come se tutti quei cancheri li ha condensati dentro l’ultima vocale della frase: pajâz, con quella a lunga, dolorosa e cattiva. Domanda dettagli, vuol sapere se penso che qualcuno m’ha visto, mentre m’accapigliavo con quello. Io rispondo che no, non mi pare. Non mi pare proprio. Lui si alza, butta un panno sul tavolo, ci mette sopra una forma di pane, una salsiccia passita, tre–quattro monete. «Prendi la tua roba e vattene, – mi dice. – Al padrone ci racconto che sei partito a cercar fortuna con una banda di quei comici che ti piacciono tanto». E poi basta. Si rimette a letto, tira su la coperta e si gira verso il muro. Io faccio fagotto, aspetto la prima luce e vado, dove non so, ma vado, e il resto più o meno lo sai: di come sono arrivato fin qua, di come ho incontrato il Goldoni, di come sono diventato attore e del perché poi non sono tornato a Bologna, una volta che la buriana si è chetata e nessuno aveva sospetti sul mio conto. Il punto è che ora, di nuovo, son qua che dovrei far fagotto, perché una banda di signorini col trucco ha deciso di mettermi le vesciche al culo. Be’, ecco la mia risposta: una volta basta e avanza. Basta fuggire. Basta mandar giù amaro. Basta farsi dare la battuta dagli altri, come una comparsa qualunque. Io sono nato primattore. Primattore nel vecchio teatro, quello che si recitava al chiuso delle sale; primattore nel Nuovo, quello della rivoluzione; primattore alla barriera dei combattimenti e primattore pure adesso, in questo teatro che è cambiato ancora ma non cambia la solfa: i signorini cercano sempre di mettermi i piedi in testa. Ma stavolta si va a mostrare ai tacchini con che legna mi scaldo. Tu mi hai detto che non c’è alternativa: o mi dileguo o li metto sotto. O smetto di combattere, o combatto da solo contro cento. Io rispondo che le due cose non si escludono. Non sono le strade di un bivio. Sono il lancio di due dadi. Mi dileguo e li metto sotto. Mi dileguo, perché bonalé con gli incontri di pugilato, e li metto sotto, perché non lo sanno mica, contro chi si sono messi!

Bernard intuì che Léo aveva terminato.

– Se ho capito bene, li vuoi colpire tu prima che ti colpiscano loro.

– Proprio così.

– E sospendi i combattimenti per non essere dove loro ti aspettano.

– Precisamente.

Bernard si alzò dallo sgabello dove aveva trascorso l’ultima ventina di minuti. Fissò Léo, poi scosse il capo, lento e grave, tanto che l’attore si immaginava la solita sentenza, l’antico verdetto, il giudizio che aveva temuto: Sei proprio un pagliaccio.

Quel che Bernard disse fu invece:

– Se non combatti, tocca che paghi l’affitto.

Il marsigliese salutò e prese la porta senza aggiungere altro, quasi che volesse contrapporre un pugno di parole alla logorrea dell’altro.

Léo contò quanti soldi gli restavano in tasca, infilò gli stivali, cuci un bottone sul pastrano e poi anche lui uscí, nell’ultima luce che sfiorava Parigi.

Sul far della sera, Pontenuovo aveva un che di lugubre.

I lampioni proiettavano ombre oblunghe sull’acciottolato e il lungofiume appariva come un oscuro oltretomba. Nondimeno, Léo pensò che fosse l’atmosfera giusta. Il tempo della commedia era finito da un pezzo, e ora anche la ghigliottina, con il suo terrore equanime e pulito, menava il pubblico alla noia. Il nuovo–Nuovo Teatro sarebbe stato un impasto di dramma e...

– Ehi! Bolognese, dico a te!

Léo si girò e si trovò davanti Rota, l’uomo del carretto di libri. L’ultima volta che l’aveva visto era stata... Alla barriera dei combattimenti, il giorno che aveva steso Jean-Do e conosciuto Bernard.

– Ancora sul ponte a quest’ora, bergamasco?

– Stavo appunto andando via, – rispose il bouquiniste indicando la sua libreriola, tomi e lunari già dentro le casse.

– Non mi dire che sei di nuovo finito qua!

– No, no... – disse Léo. – Sono venuto a recuperare qualcosa. Qualcosa che avevo lasciato qui. Come ti va?

– Oh, – fece Rota, muovendo la mano come uno scaccia–moscerini, – riesco a stento a non affogare. A te come va? Fai ancora il pugile?

– Più o meno, – rispose Léo, guardando l’acqua scura del fiume. Acqua passata, si diceva del tempo trascorso. Pensò ai suoi primi giorni a Parigi, ai sogni, alle illusioni... – Di’ ben su, Rota... Io non ti ho mai chiesto una cosa: come ci sei finito in Francia?

Rota emise una sorta di risolino sbuffato.

– Eh, caro mio! Tu non ci crederai, ma son venuto qui a fare il gondoliere.

Léo aggrottò la fronte.

– Mi stai perculando? Un gondoliere bergamasco a Parigi?

– Non proprio a Parigi. A Versailles.

Léo guardò l’omarino che gli sorrideva, e capì.

– Tu eri uno dei gondolieri della Piccola Venezia a Versailles? Veramente?

– Uno di quei dieci, per servirvi, – rispose Rota con un inchino scherzoso.

– Pensavo foste tutti veneziani... Della laguna, intendo...

– I primi quattro erano tutti veneziani. Poi la corte comprò altre sei gondole e si rivolse all’ambasciata per assumere i gondolieri. Quelli partirono da Venezia, ma all’altezza di Bergamo uno si infilò in una rissa e si ritrovò sgozzato, proprio nella locanda dove facevo il cameriere. Io mi ero già rotto le balle, avevo deciso di andarmene, partire alla ventura. Loro non potevano presentarsi a Versailles in cinque, per giunta con la notizia di uno morto com’era morto, e non potevano neanche tornare indietro. A quel punto, mi sono offerto. Non ero anch’io un cittadino della Serenissima? Se mi coprivano, a Parigi potevo ben passare per veneziano –. Il bergamasco si rabbuiò. – Adesso a Versailles non c’è più niente. Mi han detto che il Gran Canale e il Bacino d’Apollo sono pozze fangose...

A Léo, che aveva ascoltato il racconto pendendo dalle labbra dell’amico, esplose in testa un pensiero.

– Hai mica conosciuto Carlo Goldoni?

– Macché. Io sono arrivato a Versailles nell’8o, lui era già venuto via da un pezzo.

E fu allora, quasi al termine di quella giornata dedicata ai ricordi, che Léo narrò del suo incontro col maestro, al Caffè meccanico di Palazzo Egualità, e dell’immortale lezione di vita ricevuta: «Un òmo de importansa se conosse dal codasso de mone che’l se tira drio».

Alla fine dell’aneddoto, Rota rimase in silenzio, serio serio. Sembrava imbarazzato.

– Cosa c’è? – chiese Léo.

– Mi sa che ti ha dato del coglione.

All’improvviso, il mondo di Léo si affollò di punti di domanda. Fluttuavano nell’aria a sciami, come tafani.

– Come sarebbe a dire?

– Sarebbe a dire che in veneziano mona vuol dire anche idiota, imbecille, mentecatto... Goldoni ti ha detto che un uomo importante si porta sempre dietro un codazzo di idioti. Tu hai idea di quante persone lo fermavano ogni giorno per chiedergli qualcosa, un favore, una spintarella, e magari gli raccontavano la loro storia? Soprattutto italiani come noi. Io stesso ne ho conosciuti un paio. Tu eri uno dei tanti... Ma guarda che sei fortunato, almeno ti ha dedicato un motto di spirito!

Tutti i punti di domanda caddero a terra con strepito di vetri infranti.

Dunque è così, pensò Léo.

Cosi termina questa giornata.

Anche l’ultimo sogno doveva essermi sottratto.

E sia.

Davvero riparto da zero.

Il nuovo–Nuovo Teatro sorgerà su una tabula rasa.

Contò i mattoni del pilone e individuò quelli che cercava, quindi con un punteruolo li liberò dalla calce. Li sfilò con facilità ed estrasse l’involto che aveva nascosto tempo addietro. Puzzava di umidità. Si sbarazzò della tela di iuta e rimase a contemplare la maschera come se si trattasse di uno specchio o del volto di un’amante ritrovata.

Mentre saggiava il rostro, ancora duro e acuminato, un ratto uscí dal buio. Aveva la stessa corporatura, le stesse movenze sfrontate del vecchio Capitan Fracassa. Dritto sulle zampe posteriori, muso all’aria, sembrava in attesa del destino.

– Riscatto. Redenzione, – lo apostrofò Léo. – Questo è quanto, sul palcoscenico di Parigi, vi rappresenteremo nei prossimi giorni. E se a esso prestar vorrete orecchio, pazientemente, noi faremo in modo, con le risorse del nostro mestiere, di sopperire alle manchevolezze, all’angustia di questi nostri tempi.

Un inchino al pubblico di Pontenuovo. Un ghigno a storcere la bocca.

Non un bivio, ma il lancio di due dadi. Léo il lottatore poteva sparire dalle strade. Darla vinta ai muschiatini. Sottrarsi di giorno alle loro angherie. Di notte, Léo l’attore, l’uomo in maschera, avrebbe cercato vendetta e messo sotto i suoi nemici.

Di nuovo in scena, un’ultima volta.

Prima della fine, prima che la storia facesse il suo giro, prima di andarsene al diavolo o in gloria.

L’ultimo spettacolo di Scaramouche.

Il pensiero gli strappò una risata, ma quello che uscí fu piuttosto un ringhio, che risuonò basso sotto le volte del ponte e si perse sull’acqua cupa della Senna.

Capitan Fracassa si ritirò impaurito, o forse sazio di quella prova d’attore.

Léo nascose la maschera sotto la giacca e risali verso le strade.

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