L’isolato al numero 4 di via del Traghetto aveva una facciata di aspetto nobile, ma appena D’Amblanc penetrò nel primo cortile, si rese conto che gli edifici avevano conosciuto tempi migliori. Il muschio si inerpicava fin sui muri e un odore di intonaco ammuffito stagnava sui carri e sugli attrezzi.
Un uomo era intento a spaccare legna. Piantò l’accetta sul ceppo, sputò per terra e, senza attendere domande, informò l’intruso che il dottor Gallonnaire stava al quarto piano della scala di destra.
D’Amblanc si inerpicò per gradini che parevano schiantarsi a ogni passo. Lo spazio era appena sufficiente per passare con le spalle.
Bussò e si ritrovò di fronte un grosso cinghiale sovrappeso, con una pancia monumentale e il naso da alcolizzato. I capelli giallastri gli stavano appiccicati alla testa in un elmo unto e compatto. L’occhio destro era sigillato dietro la palpebra. Il sinistro fissò l’estraneo. La bocca gli intimò di presentarsi.
– Mi chiamo Orphée d’Amblanc, anch’io sono medico. Avrei bisogno di consultarmi con voi a proposito di un vostro vecchio paziente.
L’uomo stese il braccio destro, col palmo della mano rivolto in su.
– Sono trenta franchi, – disse in attesa del conquibus. Poi, vedendo che l’altro esitava: – Pagamento anticipato, – ragliò.
– Di questi tempi, è l’unica garanzia... Dico bene, collega?
D’Amblanc versò la cifra richiesta e soltanto allora l’uomo lo invitò ad accomodarsi a un tavolo di legno, ancora mezzo ingombro dei resti del pranzo.
– E allora, – attaccò fregandosi le mani. – Di chi stiamo parlando esattamente?
– Auguste Laplace, ricoverato a Bicêtre il 26 gennaio 1793.
Il dottor Gallonnaire rimasticò il nome sottovoce, scrollò il capo, quindi scomparve in un’altra stanza e ne riemerse pochi minuti dopo, con una risposta secca e senza appello.
– Mai sentito nominare.
D’Amblanc sfilò dalla borsa un pacco di fogli e li appoggiò sul tavolo, l’aria di chi è costretto a giocare una mossa scontata.
– Eppure la richiesta di ricovero è firmata da voi, vedete? L’uomo allungò la mano sul plico e lo fece ruotare di mezzo giro. Le carte si allargarono a ventaglio davanti a lui.
– «Il cittadino Auguste Laplace», – lesse ad alta voce, –«nato a Aurillac, eccetera eccetera, soffre da tempo di una grave forma di melancolia, dalla quale non riesce ad avere alcun sollievo. Chiedo pertanto che egli venga ricoverato come pensionante per un periodo minimo di mesi tre e fino a completa guarigione. Firmato...» – Sollevò dalla pagina l’occhio buono e stropicciandosi l’altro dichiarò che la firma era contraffatta. – Mi è già capitato altre volte, – commentò, mentre riempiva un bicchiere di vino rosso e ne mandava giù una buona metà. – Specie coi melancolici, vero, collega? Si convincono di aver bisogno di un ricovero, e pur di ottenerlo sono pronti a fare carte false.
D’Amblanc non si scompose e passò alla mossa successiva.
– Gli altri fogli, – disse indicando il plico, – sono rispettivamente la minuta della lettera che l’economo di Bicêtre vi spedi per informarvi che Auguste Laplace era stato accettato e la vostra risposta autografa con alcune informazioni aggiuntive sul vostro paziente.
L’uomo questa volta lesse le carte con la voce della mente, sorseggiando il vino che non aveva nemmeno offerto al collega. Sfogliò l’intero fascicolo, compulsò le annotazioni di Pussin e del dottor Pinel.
– Dunque? – domandò alla fine, come se la conversazione fosse appena iniziata. – Che genere di consulenza vi serve, collega?
D’Amblanc era piuttosto infastidito da quel continuo ricorso alla parola «collega». Tuttavia, cercò di mantenere l’espressione asettica che si era riproposto di sfoggiare.
– Vorrei sapere se davvero conoscevate da tempo il cittadino Laplace e le sue patologie.
– Mi pare evidente di no, collega, – disse l’altro mentre riordinava i fogli davanti a sé. – Purtroppo non posso esservi d’aiuto.
Spinse il plico verso il centro del tavolo e si alzò, per segnalare che il colloquio era terminato.
D’Amblanc senti che la rabbia cominciava a interferire con la sua mimica controllata. Pensò alla magnetizzazione contro la volontà e a quanto gli sarebbe piaciuto usarla per far parlare quel farabutto. Per la prima volta, provò per il cavaliere d’Yvers una punta d’invidia.
– Perché allora avete mentito, scrivendo che conoscevate da tempo la sua malattia?
– Questo io non l’ho scritto, collega.
– Però avete chiesto di ricoverarlo come se fosse un folle.
– Perché, non lo era? Correggetemi se sbaglio, collega, ma mi pare di aver letto in quelle carte che l’esimio dottor Pinel, a un certo punto, decise di trattare il Laplace come un internato e non più come un pensionante. Tant’è che Laplace è poi fuggito dall’ospizio di Bicêtre. Dunque la mia diagnosi si è rivelata corretta.
– Già, corretta. E qual è la vostra tariffa, per un’analisi tanto brillante? – sbottò D’Amblanc. – Se trenta franchi è il prezzo per una consulenza, allora un documento falso deve costare almeno il triplo.
– Dite, D’Amblanc, voi siete un medico o un poliziotto? – Ora era il dottor Gallonnaire a mostrarsi impassibile di fronte alla collera dell’altro. – Giusto per capire se mi state offendendo oppure accusando. Perché nel primo caso vi sfido a ripetere quel che avete appena detto. Nel secondo, a provare contro l’opinione mia e del dottor Pinel che Auguste Laplace non era un alienato e che dunque io dichiarai il falso per farlo internare. Per quale scopo, poi?
– Voi avete aiutato un pericoloso controrivoluzionario a nascondersi tra i folli, per sottrarsi alla giustizia.
– Ah, dunque è di questo che mi si accusa! – disse Destouche sghignazzando di gusto. – Allora posso dormire sonni tranquilli. Non so se ve ne siete accorto, D’Amblanc, ma la caccia ai controrivoluzionari imboscati non va più di moda.
Al contrario, si loda chi contribuì a salvare certi aristocratici innocenti, brissotini senza colpa, sacerdoti fedeli al papa... Sento che anche per me potrebbe esserci dietro l’angolo una bella medaglia, eh? Che ne dite, collega? Volete brindare alla mia salute?
E mentre l’altro riempiva per la prima volta due bicchieri, Orphée d’Amblanc raccolse il fascicolo su Auguste Laplace e se ne andò dalla casa del dottor Gallonnaire, senza salutare e con trenta franchi di meno nel portamonete.