10.

D’Amblanc aprí gli occhi e vide i bagliori del fuoco stagliarsi sul cielo grigio. Si sollevò sui gomiti e si ritrovò a fissare il proprio avversario, che ancora protendeva la mano nella sua direzione per ucciderlo, ma senza più riuscire a nuocergli. Un attimo dopo non c’era più, risucchiato dalle ombre. Lo spazio vuoto al suo posto pareva denso, come se la sagoma fosse rimasta tracciata nell’aria.

D’Amblanc si alzò, stringendo ancora nel pugno l’asta con la quale si era folgorato per interrompere la magnetizzazione. Tornò sui suoi passi. Jean era riverso a terra. D’Amblanc si inginocchiò e gli prese la testa tra le braccia, come aveva fatto poco prima, cercando di salvarlo. Sembrava dormisse. Non c’era molto sangue, l’emorragia era interna. Un colpo da esperto. Le lacrime appannarono la vista. Le cose in cui aveva creduto erano crollate una dopo l’altra, pensò, mentre stringeva il cadavere di Jean. Uno in più tra i tanti. A differenza degli altri, lui era stato soltanto una vittima.

Alzò gli occhi e maledisse Yvers, dovunque fosse andato a rintanarsi. Aveva voglia di piangere, piangere di rabbia e disperazione. A cosa mai era servito salvare Jean dai boschi soltanto per farlo morire li, nel cuore della capitale, per mano dello stesso carnefice che lo aveva rovinato? D’Amblanc tentò di biascicare una preghiera per quell’anima straziata.

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