Al foborgo se ne parlava da giorni. Per le strade, nelle botteghe. Sullo spiazzo di fronte alla carcassa nera della Gran Pinta e nelle bettole fuori mano che davano rifugio ai suoi profughi.
I muschiatini preparano la loro festa. La Gioventù Dorata non lascerà passare il 21 gennaio come se niente fosse. Bande di Inc’edibili decapiteranno i busti di Marat e di Lepeletier.
Tra una suola e una tomaia, mattina e pomeriggio, Bastien s’era scolato un barile di quelle profezie. I vecchi amici di Treignac – e i vecchi impiccioni che si facevano comunque gli affari suoi – venivano a metterlo in guardia, a dirgli che la giornata si preannunciava rognosa, che starsene a casa era la scelta più saggia, specie per uno che una botta in testa l’aveva già rimediata, e la seconda rischiava di spedirlo a badare per sempre le galline del prete, dietro la chiesa.
Avevano finito per convincerlo. E il termometro precipitato sotto lo zero ci aveva messo il timbro. Niente festa. Del resto – dicevano in tanti – ti pare che c’è qualcosa da festeggiare? Su questo Bastien non aveva le idee chiare: il fatto che il popolo aveva tagliato la testa al re di Francia gli pareva una roba da andarne fieri, ma quanto alla vita, non è che la Repubblica gliene avesse regalata una tanto migliore. Quel che invece gli pareva sicuro come l’oro era che in certi giorni bisognava essere li, vedere coi propri occhi, per poi raccontarla a chi non c’era, e pure a chi c’era ma diceva d’aver visto un’altra cosa. Quando un garzo del foborgo voleva ascoltare la storia della capa del Capeto, Bastien era orgoglioso di poter rispondere: «Te lo si conta noi, com’è che andò. Noi che s’era in Piazza Rivoluzione», e gli mostrava pure il brandello di stoffa della giacca di Luigino che Treignac gli aveva regalato quel giorno. Cosi, due anni dopo quel 21 gennaio, mentre Treignac ancora dormiva, il ragazzino si infilò le scarpe, scese in strada e si diresse verso il luogo che più spesso ritornava nelle voci di quei giorni.
Il giardino di Palazzo Egualità.
Già lungo il tragitto, Bastien si rese conto di aver fatto la scelta giusta. Le voci non mentivano. Un rivolo di cittadini sempre più fitto gli scorreva intorno man mano che si avvicinava alla meta. Dalle vie laterali, gli elegantoni ruscellavano a valle e si univano alla marcia. Di quando in quando, stando bene attento, Bastien risaliva quei torrenti, si infilava nei vicoli, e armato di un pezzo di carbone, dava il suo personale contributo alla guerra delle scritte contro la Gioventù Dorata e l’Armata dei Sonnambuli.
Giunto al grande cancello d’ingresso, si aggregò a un gruppetto che entrava compatto, per paura che qualche guardione lo cacciasse fuori, con la scusa dei vestiti logori, dell’età o anche soltanto per fare il lupo con l’agnello.
Dentro c’era già una bella folla, sparsa tra il colonnato, i tavoli da gioco e i vialetti del giardino. La maggior parte fluiva attorno a un palchetto di legno al centro della corte. Sopra il palchetto, un trono. Sopra il trono, un gecco. Bastien si avvicinò e trovò un varco per godersi lo spettacolo.
Il gecco in realtà era un fantoccio di paglia. Aveva due facce e il corpo diviso in due metà. Davanti era vestito come un re e portava la corona, dietro indossava il berretto frigio, una parrucca nera e la camicia rossa dei giacobini. Dalle tasche della giacca gli uscivano mazzi di assegnati e banconote. Nella mano destra teneva un pugnale, a mo’ di scettro, e nell’altra un bicchiere pieno di un liquido che sembrava sangue.
Un muschiatino pomponnato a festa sali sul palco e domandò silenzio a quelli di sotto, che sgolavano insulti e canzoni. Quindi gonfiò il petto e si mise a gridare al posto loro. Tutti notarono che, per l’occasione, pronunciava la erre.
– Popolo di Francia! Questo giorno è consacrato all’orrore per la tirannia e all’amore per l’indipendenza. Giorno fatale tanto ai realisti che ai bevitori di sangue, ai complici del Capeto e ai valletti di Robespierre. Non è soltanto al nome di un re che il popolo ha fatto la guerra, ma a ogni genere di dittatura. Testimoniamo dunque la nostra indignazione, contro i mostri che, usurpando l’autorità del tiranno, ristabilirono le bastiglie distrutte dai patrioti e fecero colare a torrenti il sangue dei cittadini.
L’applauso del pubblico abboccò alla pausa dell’oratore. . Una giovane merdegliosa si spellava le mani proprio a una spanna dall’orecchio di Bastien. Il ragazzino la guardò, tutta brillocchi e merletti, e decise di non unirsi all’entusiasmo generale. Il discorso contro la tirannia e i dittatori gli era piaciuto, ma se piaceva pure a una così, allora doveva esserci qualcosa di storto.
L’oratore puntò il dito contro il fantoccio e riprese a parlare.
– Io ti accuso di aver saccheggiato la Francia, incarcerato i cittadini e assassinato il popolo. Io ti accuso di aver sgozzato i membri della Convenzione e di aver tentato di scioglierla, per ridurre i Francesi in schiavitù. Io ti accuso di esserti opposto ai decreti di clemenza per i cittadini detenuti senza processo. Io ti accuso, infine, di tutte le calamità che hanno colpito e che ancora colpiscono la Francia, perché esse sono tutte tue figlie. Per questo, in nome del popolo sovrano, io ti condanno a essere bruciato vivo, di fronte al luogo che fu il principale teatro dei tuoi misfatti. Le tue ceneri saranno raccolte in un pitale e gettate nella fogna di Montemarte, che d’ora in poi chiameremo: «Il Pantheon dei giacobini».
Di nuovo applausi, urla. Viva la giustizia! A morte i giacobini! Viva la Convenzione! Abbasso i tiranni!
Bastien vide decine di torce spuntare e accendersi sopra le teste. Il trono del re giacobino venne sollevato da quattro muschiatini, portato giù dal palco e seguito in corteo da tutti i presenti. Le teste ormai riempivano il giardino e tracimavano su via di Sant’Onorio. Chi diceva mille, chi seimila. Le bocche intonarono una canzone che Bastien non aveva mai sentito, ma che tutti quanti sembravano conoscere come La Marsigliese:
Popolo francese, popol di fratelli
puoi tu vedere senza orrore
il crimine innalzare i vessilli
della strage e del terrore?