4.

Le due sentinelle sulla porta presero in consegna i documenti che Yvers porse loro e andarono a registrarli su un grosso libro, custodito all’interno della Torre.

Yvers segui Laurent su per una corta rampa di scale. La luce era scarsa, una lampada a olio pendeva dal soffitto a volta illuminando lo scarso mobilio dello stanzone. Due uomini sedevano a un tavolaccio, intenti a mangiare formaggio. Il più giovane si alzò e disse di chiamarsi Gomin. Yvers sapeva che era l’aiutante di Laurent ed entrambi erano incaricati di vegliare sul delfino.

– Conoscete la procedura? – domandò il terzo, dopo essersi presentato come Gourlet, il guardiaporte.

Yvers annuí.

– Dovreste mostrarmi le chiavi, – disse.

– E il delfino, ovviamente, – aggiunse Laurent.

– Ovviamente, – ripetè Yvers con un sorriso di cortesia.

– Dorme nel suo alloggio, – disse Laurent indicando il piano di sopra. – Prego, da questa parte.

I due commissari residenti estrassero ciascuno una chiave. Lo stesso fece Gourlet. Con quelle, aprirono i lucchetti che serravano una scatola metallica e ne ostentarono il contenuto davanti agli occhi di Yvers: erano le chiavi di tutte le porte della Torre. Quindi fecero strada su per la scala a chiocciola, con un candelabro ciascuno. A mano a mano che salivano, Gourlet apriva le porte che interrompevano l’ascesa. Al primo piano, Yvers sbirciò in fondo al corridoio la stanza delle guardie, stravaccate sulle brande o intente a fumare la pipa. Infine giunsero agli appartamenti del prigioniero.

La prima cosa che Yvers notò fu la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino affissa a una parete. Lassù il freddo era più intenso. L’unico calore emanava da una vecchia stufa, dietro la quale si innalzava un tramezzo. La metà superiore era costituita da una lunga vetrata, che consentiva di guardare dentro la stanza senza dovervi entrare.

Circa a metà si apriva una finestra con sbarre di ferro abbastanza larghe da passare il vitto al prigioniero.

I quattro uomini si accostarono al divisorio. Laurent fece segno a Yvers di guardare dentro. Oltre il vetro, il cavaliere distinse una sagoma distesa su un letto. Il chiarore del volto emergeva dalla penombra. Nel silenzio della Torre poteva sentire il respiro pesante del ragazzino.

– Ha una brutta tosse, – commentò Laurent. – Ho ottenuto di farlo passeggiare sugli spalti nelle ore più calde del giorno, perché possa respirare aria pulita e ricevere un po’ di sole.

– Molto saggio da parte vostra, – disse Yvers.

– A volte lo facciamo scendere dabbasso e cerchiamo di svagarlo un poco, – aggiunse Gomin timidamente. – Gli ho insegnato a giocare a dadi –. Si lasciò scappare un sorriso che si spense sull’espressione fredda di Yvers.

– Mi pare di capire che la salute generale del prigioniero vi preoccupi, – disse rivolto a Laurent.

– Non vi nascondo, cittadino, che quando ho ricevuto questo incarico ho riscontrato nel ragazzo i segni della scrofola, – disse il commissario.

– Un re scrofoloso è davvero un paradosso, – commentò Yvers, poi, di fronte al silenzio degli altri, aggiunse: – La sorella?

– Gode di buona salute. È al piano superiore, negli appartamenti dove fu rinchiusa la madre.

Yvers annuí serio.

– Bene. Non voglio distogliervi oltre dalla vostra cena.

Gomin intervenne sollecito.

– Possiamo offrivi un bicchiere di vino, cittadino Pouland? Fa piuttosto freddo...

Questa volta il sorriso riuscì meglio.

– Volentieri. E fermatevi anche voi, cittadino Gourlet. Questa notte il gelo entra nelle ossa.

Il guardiaporte annuí contento, fregandosi le mani per scaldarle, quindi fece strada verso la scalinata.

Ridiscesero i gradini con molta cautela, fino all’ammezzato dei commissari, chiudendosi le porte alle spalle, una dopo l’altra.

Gomin depositò sul tavolo quattro bicchieri e si affrettò a riempirli da un fiasco, mentre gli altri si accomodavano.

Yvers scrutò l’ambiente intorno a sé. La luce fioca delle candele e il fuoco nel camino illuminavano appena la volta di pietra e le spesse pareti della Torre.

– È uno strano contrappasso, non trovate?, che questa rocca, costruita dai cavalieri templari, si trovi oggi a custodire l’ultimo discendente di quei monarchi che distrussero l’ordine del Tempio.

La voce profonda di Yvers saliva fino al soffitto, si arrampicava sui muri, impregnava le porosità della roccia.

Laurent sorseggiò il vino.

– Noi però non siamo qui per vendicare i templari, – disse, – ma per volontà del popolo francese.

Yvers accondiscese al commento con un sorriso enigmatico.

– Ne convengo, cittadino Laurent. Nondimeno, a pensarci bene, potreste essere considerati i più devoti al re.

Gourlet scolò il proprio bicchiere d’un fiato, tradendo un vago nervosismo. Subito lo riempi di nuovo.

– Cosa volete dire? – chiese.

La voce di Yvers si fece ancora più sinuosa e avvolgente.

– Uno come me, che passa e va, non può nemmeno immaginare cosa significhi restare qui con lui ogni giorno. Accudirlo, preoccuparsi della sua salute... – fissò Gomin, che distolse lo sguardo, – insegnargli a giocare ai dadi.

– In fondo il signor Carlo è un ragazzino come gli altri, –disse il guardiano, e subito si zittí imbarazzato. Era evidente che faticava a sostenere lo sguardo di Yvers e per questo teneva le palpebre mezze chiuse, puntando gli occhi sul bicchiere intonso dell’interlocutore.

Il cavaliere stese le mani sul tavolo, in direzione degli altri tre.

– Sentinelle, guardiani, mura, cancelli... È una buona metafora della Francia. Sorveglianti che sorvegliano altri sorveglianti, che ne sorvegliano altri ancora. Mura che cingono altre mura. A volte viene spontaneo chiedersi se è per questo che è stato fatto ciò che è stato fatto –. Le ombre sulle pareti danzavano al ritmo della voce, che sembrava provenire dalle pareti stesse, come fosse la Torre a parlare.

– Immagino che ci si possa sentire stanchi. Non già di fare il proprio dovere per la patria, ma di vivere in una prigione in cui si è al tempo stesso carcerieri e carcerati. Sempre all’erta, aprire e chiudere chiavistelli, controllare documenti, per tenere fuori un nemico che non ha più alcun bisogno di entrare, giacché ci costringe a vivere prigionieri. Ci si può sentire stanchi, attori di una pantomima, complici di un autoinganno. E magari, nei momenti di maggior solitudine, nelle notti d’inverno, si rimpiangono gli anni Ottanta, quando le cose erano più semplici, comprensibili, alla nostra portata. E viene voglia di scendere dalle mura, lasciare il cancello, smettere di scrutare –. Laurent, fissava il vuoto, Gomin e Gourlet tenevano gli occhi chiusi. – Rilassare lo sguardo finalmente. Dormire. Dimenticare. Sognare di essere altrove, in un paese che non conosce conflitto... senza cancelli... senza pensieri –. Anche Laurent chiuse gli occhi. La voce prosegui: – Non c’è felicità nell’imporsi questa insulsa solitudine da reclusi, nel presidiare la morte lenta di un ragazzino per scrofola... tosse... deperimento... Perché è ciò che accadrà e voi lo sapete. Liberatevi. Liberatelo. È quello che nel fondo dell’animo voi volete. Che tutti, lui e voi, possano uscire da qui e andare in cerca del proprio vero destino. È così. È per questo che ora mi darete le chiavi.

Yvers si alzò cauto, senza che gli altri reagissero. Erano immobili, addormentati sul posto, e lui sapeva che non si sarebbero risvegliati contro la sua volontà. Frugò nelle loro tasche e trovò le tre chiavi che aprivano la scatola metallica con tutte le altre. Laurent l’aveva rimessa al suo posto, nella scansia di un armadio. L’aprì ed estrasse quel che cercava. Quindi prese a salire per la scala a chiocciola, al buio. Cercò la serratura della prima porta a tentoni, l’aprì delicatamente e la lasciò socchiusa alle proprie spalle. Lo stesso fece con le altre. Giunto all’altezza degli alloggi delle guardie, passò davanti al corridoio, rapido e silenzioso come un’ombra. Quando aprí l’ultima porta si ritrovò di nuovo faccia a faccia con la dichiarazione. Vi poggiò sopra una mano, tamburellandovi le dita, come a saggiarne la consistenza. Parole, pensò. Cos’erano le parole di fronte alla volontà? Puységur aveva detto: «Credete e volete». Ecco il suo migliore discepolo mettere in pratica il precetto in tutta la sua potenza. Attraversò l’anticamera. L’unica luce era il tenue bagliore proveniente dalla garitta della stufa. Quindi inserì le chiavi nella porta dell’alloggio di Luigi Carlo ed entrò.

Appena fu dentro si accorse che il lieve russare non si udiva più.

– Sei l’uomo della merda?

La voce bianca del ragazzino lo fece trasalire. Per un attimo fu incerto su cosa rispondere, meravigliandosi di sé stesso. Non doveva spaventarlo. Se il ragazzino avesse urlato, le guardie sarebbero piombate li in pochi secondi. Recuperò il controllo del respiro.

– Sono il vostro liberatore, altezza reale, – disse.

Diede il tempo al ragazzino di assimilare l’informazione.

– Non ti credo, – fu la risposta. – Vuoi trascinarmi giù nel gabinetto.

– Vi porterò fuori di qui, via da Parigi e dalla Francia. Verrete tratto in salvo a Vienna, dove vi attende vostro zio.

– E mia sorella? – chiese di nuovo la voce bianca. – Portate anche lei?

Yvers deglutì la tensione.

– Certamente. Dopo. Prima devo portare voi. Quindi tornerò a prendere anche vostra sorella.

Aveva già fatto due passi avanti. Gli occhi ormai abituati alle tenebre avevano individuato il volto candido del delfino. Yvers estrasse di tasca un flacone e vuotò il contenuto su un fazzoletto, impregnandolo bene. L’odore invase l’aria.

Prima che il ragazzino potesse reagire, Yvers gli saltò addosso e gli soffocò il grido con il fazzoletto imbevuto di etere. Il principe non oppose resistenza. Yvers ebbe la sensazione di avere tra le braccia un corpo rassegnato a qualunque destino. Ecco cos’era diventato il rampollo della famiglia reale di Francia. Un’inerte pedina nelle mani altrui. Non sarebbe mai stato un capo d’uomini, poiché non è già il sangue a trasmettere la volontà, ma lo spirito. Nessuno aveva mai temprato lo spirito di quel ragazzino. E ormai era tardi.

Per sincerarsi che fosse svenuto, lo scrollò un paio di volte. Quindi si tolse il mantello, legò assieme i polsi del delfino con il pezzo di corda che aveva portato con sé e se lo caricò sulla schiena come fosse uno zaino. In questo modo manteneva le braccia libere. Si rimise il mantello, in maniera che coprisse il corpo del principe, e sollevò il cappuccio sulla testa. Stava nuovamente sudando e non certo per il caldo. Le gocce cadevano sul pavimento producendo un ticchettio irreale. Doveva sbrigarsi. L’impresa più difficile fu scendere per la stretta scala a chiocciola con il peso sulla schiena. Fermarsi ad aprire e richiudere tutte le porte, ripassare davanti agli alloggiamenti delle guardie, scendere all’ammezzato e infine riporre le chiavi nella scatola, dentro il mobile. I tre sonnambuli non si erano mossi affatto.

– Commissario Laurent, – disse Yvers. – Ora vi alzerete e mi condurrete all’uscita.

Laurent aprí gli occhi, rivelando lo sguardo spento di un automa. Scostò la sedia e si mosse verso l’uscita. Yvers lo seguì, con il suo fardello.

Share on Twitter Share on Facebook