I.

Yvers si era allontanato rapido dal convento, compiendo un giro largo e ritornando lungo via di Sant’Onorio. Aveva imboccato un paio di svolte, camminando spedito verso il punto convenuto. Aveva approfittato del tragitto per recuperare la calma e il controllo dei pensieri. La ricomparsa di Jean era un segno, si era detto al momento. Si domandò se da qualche parte, là in mezzo alla massa indistinta di umani e nasi deformi, non si celassero anche Juliette e Noèle, e chissà chi altri, lasciati in Alvernia anni prima. Spettri che riaffioravano dal passato per assistere al suo trionfo. Impossibile. Eppure qualcuno aveva usato Jean come un cane da tartufo per scovare lui...

Rischiò di scivolare sul ghiaccio, ma si aggrappò a un paracarro e mantenne l’equilibrio. Era quasi all’appuntamento. Niente e nessuno avrebbe fermato l’azione. Non ora che si apprestava a compiere il suo capolavoro. Scorse la sagoma di Malaprez nei pressi del ponte. Fidato, leale Malaprez. Non ebbe bisogno di dirgli nulla, sapendo che non si sarebbe aspettato parole. Tese l’orecchio, in cerea dei suoni che spezzavano la sera di Parigi. Vaghi rumori di folla giungevano lungo il fiume. Yvers se ne compiacque. Grazie ai Sonnambuli, sarebbe stata una notte agitata. Il cavaliere affiancò il suo scudiero e i due procedettero fino a una casa della Rivadritta, non lontano dall’Isola di San Luigi. Bussarono tre volte più una e la porta si aprí.

All’interno, un uomo gobbo e mal rasato li salutò con deferenza e fece strada in un’anticamera, illuminata soltanto da un candelabro e dalle braci del fuoco. Yvers tese la mano, ricevette le carte e le controllò.

– Questa è la nomina. La carta civica?

L’uomo gli allungò anche quella. Yvers la lesse con calma poi chiese:

– Che ne hai fatto di lui?

Il gobbo ostentò un ghigno complice.

– Riposa in fondo al fiume, signore. Con una pietra alle caviglie.

Yvers annuí e si rivolse al taciturno Malaprez.

– Andiamo.

– Mio signore... – bofonchiò timidamente il padrone di casa.

Yvers lo vide portarsi una mano sul cuore.

– Lunga vita all’Armata dei Sonnambuli... Lunga vita alla Francia... Lunga vita al Re...

Il cavaliere lasciò l’abitazione con l’immagine di quel meschino soldato che li osservava dall’uscio, fiero di avere fatto la propria parte in un’impresa talmente grande che a stento poteva coglierne le implicazioni.

Camminarono di buon passo, ma senza correre, per non destare sospetti. La notte era ormai scesa, il campanile di Nostra Signora suonò le nove. Dovevano sbrigarsi. Per fortuna mancava poco. Rallentarono soltanto in vista delle mura di cinta, oltre le quali svettavano i palazzi del Tempio. Si fermarono in un androne, dove Yvers sfilò di tasca la coccarda tricolore e la affisse al bavero della giacca, facendo in modo che il mantello la lasciasse scoperta. Infine consegnò il bastone a Malaprez.

– Dio vi assista, signore, – disse questi.

Yvers parve non averlo sentito.

– Se non sarò uscito entro un’ora, vattene via. Lascia Parigi, – disse.

– Se sarà così andrò in Vandea, – rispose l’altro, suscitando lo stupore di Yvers per la scoperta di quella determinazione. Malaprez aveva guardato oltre l’eventuale fallimento del piano, pensò il cavaliere. Si era visto solo e aveva pensato a come procurarsi una buona morte.

– Sei un ottimo soldato, Malaprez. Saresti sprecato tra quei bifolchi.

Senza attendere una replica, Yvers si incamminò verso l’ingresso del castello.

Giunto sotto il colonnato si palesò al portiere.

– Viva la Repubblica, cittadino.

– Chi è là?

– Sono Pouland, – rispose Yvers. – Il commissario designato di giornata.

Consegnò i documenti.

– Siete in ritardo, – disse l’uomo controllando le carte e confrontandole con l’informativa del comune.

– C’è parecchia confusione in città, sapete? – ribattè Yvers con calma. – È stata una giornata campale... e la notte non porterà consiglio. !

Il portiere annuí con ampi cenni della testa.

– Lo so, lo so... un gran polverone. Molti dei nostri sono ancora fuori, per dare man forte alle guardie delle altre sezioni.

Lasciò indugiare lo sguardo ancora un poco sull’uomo che aveva davanti, dopodiché tirò la fune che azionava il campanello all’interno e fece segno di varcare il cancello.

Yvers procedette attraverso il cortile verso l’imponente Palazzo del Gran Priore, che fungeva da caserma per la guarnigione del Tempio. Sulla porta lo attendevano due guardie.

– Siete in ritardo... – disse uno dei due. – Seguitemi.

Lo condusse attraverso il palazzo, fino all’uscita che dava sul secondo cortile.

Yvers si accorse di sudare, nonostante il freddo della sera, e dovette ricorrere a tutta la padronanza di sé per mantenere il respiro e il battito regolari. Attraversarono il secondo cortile, costeggiando gli orti, fino a giungere davanti alla guardiola che controllava l’accesso nel muro di cinta della Torre.

– Il commissario di giornata! – annunciò l’accompagnatore.

Dall’interno si palesò un volto assonnato.

– Non c’è mica bisogno di gridare, – disse in tono seccato e tirò il campanello per chiamare il compagno, che stava nel casotto di là dal muro.

Infilò nel cancelletto una grossa chiave dall’impugnatura ad anello, mentre l’altro guardiano faceva lo stesso dalla parte opposta della serratura.

– Buonasera, cittadino, – disse Yvers mentre varcava il cancello.

L’altro rispose con un grugnito e gli indicò l’uomo che lo stava aspettando. Mentre si allontanava, Yvers lo vide infilarsi nella guardiola, dove al lume di candela lo attendeva un piatto fumante.

– Buonasera. Sono il commissario Laurent. Siete Pouland?

– Si, – disse Yvers.

– Molto bene. Venite, vi accompagno.

Procedettero in un’atmosfera irreale, passando sotto i filari di alberi che circondavano la Torre, struttura solitaria, massiccia e al tempo stesso slanciata verso un cielo di lavagna, con i pinnacoli che sembravano sfiorarlo.

A Yvers vennero in mente le fiabe. Era come trovarcisi dentro. Ma non era una principessa che stava andando a liberare.

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