L’agente Chauvelin sembrava invecchiato di anni, pensò D’Amblanc una volta entrato nella grande stanza. Il volto era teso, sudato. Era in piedi dietro la scrivania, un fascio di carte serrato nella mano a mo’ di mazza. L’uomo si ricompose, deponendo i fogli e stirandoli sul tavolo.
– Le mosche mi fanno dannare, – disse il funzionario. – Ne girano un paio da stamattina, e sono torturato dall'emicrania. Il ronzio dei dannati insetti mi fa impazzire. Prego, accomodatevi.
D’Amblanc sedette rispondendo all’invito. Guardò gli occhi dell’interlocutore. Erano infossati, stanchi.
– Dunque siete tornato. Alla fine avete scoperto che il vostro posto è qui a Parigi, – disse Chauvelin.
D’Amblanc non aveva alcuna intenzione di riprendere le schermaglie e non colse la provocazione. Era li con uno scopo preciso.
– Sono tornato perché il mio lavoro non è ancora finito.
– Se vi riferite a me, – disse Chauvelin portandosi una mano alla fronte, – credo di essere un caso disperato.
D’Amblanc scosse la testa.
– A dire il vero non ero nemmeno sicuro di trovarvi ancora qui.
Chauvelin annuì.
– Qualcuno è stato allontanato, – ammise.
– Non voi.
– No, infatti. Intendo servire la Francia e la Repubblica finché sarò in grado di farlo. Credo sia questo il dovere di ogni buon rivoluzionario.
D’Amblanc pensò che in quell’ufficio avrebbe preferito trovare qualcun altro, uno di quei funzionari usciti dal colpo di termidoro. Eppure al contempo era proprio Chauvelin, il giacobino della prima ora, che sperava di incontrare.
– I rivoluzionari sono quasi tutti morti, – disse.
Chauvelin gli lanciò un’occhiata sconsolata.
– L’orgoglio finirà per essere la vostra rovina, dottore. Ancora pensate che la rivoluzione debba adeguarsi alle vostre aspettative. Chi vi credete di essere? Ve ne andate, restate lontano per mesi, tornate... Vi comportate come un amante stagionale. Restare fedeli alla rivoluzione anche se non è quella che ci aspettavamo, ecco la vera impresa –. Lo sforzo dì parlare parve averlo stremato. Strinse gli occhi e si asciugò il viso con il fazzoletto. – Cosa siete venuto a dirmi? – domandò, poi subito aggiunse: – Sempre che siate ancora intenzionato a dirmelo...
D’Amblanc esitò un istante, prima di parlare.
– Ho buone ragioni di credere che il magnetista del quale ho scoperto le tracce in Alvernia, il cavaliere d’Yvers, si trovi a Parigi in questo momento.
– Non mi sorprende, – commentò Chauvelin. – Molti partigiani monarchici si annidano ancora a Parigi.
D’Amblanc scosse di nuovo il capo.
– Lasciatemi concludere. Dalla fine di gennaio del ’93 al termidoro di quest’anno, costui ha risieduto sotto falso nome all’ospedale di Bicêtre, dove ha continuato i suoi esperimenti sul sonnambulismo. Il dottor Pinel lo ritiene capace di controllare la volontà altrui, anche a distanza.
Il funzionario ebbe un sussulto, difficile dire se a causa di una fitta di dolore o della rivelazione di D’Amblanc. Parevano trascorsi secoli da quando il commissario Chauvelin aveva sventato il complotto per sottrarre Luigi XVI alla ghigliottina, lasciandosi sfuggire la mente della congiura.
– Grazie alle false dichiarazioni di un certo dottor Gallonnaire, – aggiunse D’Amblanc, – costui è riuscito a farsi ricoverare come pensionante il 26 gennaio 1793. Cinque giorni dopo il tentativo di liberare il Capeto. Potrebbe essere uno degli uomini che vi è scappato allora.
D’Amblanc lasciò che Chauvelin facesse le proprie valutazioni. Colse una luce nuova nel suo sguardo, ma proprio in fondo, un barlume sopravvissuto ai rivolgimenti e all’emicrania.
Riprese.
– Avrete sentito parlare dell’Armata dei Sonnambuli.
Chauvelin annuí serio, agitando la mano davanti al volto. Puro automatismo, perché a D’Amblanc non era parso d’udire alcun ronzio.
– E immagino sappiate, – continuò, – che si parla di una loro innaturale resistenza al dolore, di un’espressione assente, lontana. Sui muri della città vi sono scritte che inneggiano a quella banda.
– Se Brissot fosse ancora tra noi, – disse Chauvelin con uno sforzo, – potremmo dargli soddisfazione. A quanto pare, la controrivoluzione dei sonnambuli è incominciata.
D’Amblanc accolse quelle parole con gelo. Sembravano contenere sarcasmo, ma l’espressione di Chauvelin era invece pesante, profonda. Guardava in basso, verso il piano della scrivania, come a cercare qualcosa. Forse il filo smarrito dei propri pensieri.
– Dietro le azioni di questi sonnambuli ci sono i muschiatini di Palazzo Egualità, – prosegui il poliziotto. – Ne conosciamo nomi, cognomi e soprannomi. Non si tratta di una misteriosa armata, ma di una banda fra le molte che si agitano in città in questi tempi burrascosi. Fanno capo a uno dei custodi del palazzo, un certo La Corneille. Non sappiamo se le scritte sui muri siano un’idea sua. Di sicuro, hanno aggiunto al profilo della banda un certo non–so–che....
Gli angoli della bocca di Chauvelin lottarono per alzarsi e formare un sogghigno, ma si arresero dopo un istante, come vinti da un peso che nessun altro poteva sentire.
D’Amblanc acquisi la nuova informazione, deglutì l’orgoglio prima di ribattere.
– Perché non arrestate questo La Corneille? Potrebbe portarvi all’uomo che ho in mente, lo stesso uomo con cui avete un conto in sospeso da quel 21 gennaio. Oppure potreste incastrare il dottore che gli ha firmato la richiesta di ricovero. Tempo fa mi diceste che un uomo solo non era un pericolo urgente, a paragone dei complotti che agitavano Parigi. Oggi quell’uomo potrebbe essersi unito ad altri uomini, che agiscono impuniti per le strade grazie ai suoi insegnamenti.
Chauvelin si decise a guardarlo in faccia.
– Ci sono ordini superiori, – disse. – Questa sedicente Gioventù Dorata non va perseguita. C’è chi ne ha in mano le briglie.
D’Amblanc non si trattenne.
– Chi? Fréron? Thuriot? Quelli che prima hanno maneggiato con Danton, poi hanno tradito Robespierre, e adesso vogliono riportare le cose allo status quo ante? È questo che voi chiamate restare fedeli alla rivoluzione? Prendere ordini dai voltagabbana?
Chauvelin si strinse le tempie con le dita e respirò a fondo. Quindi si alzò e si mise di tre quarti, verso la finestra, osservando l’autunno che incedeva inesorabile su Parigi.
– La rivoluzione ci ha insegnato che la differenza fra un patriota e un criminale può essere sottile quanto quella fra una guida illuminata e un tiranno. Da una parte Fréron, dall’altra i sanculotti oltranzisti... Chi difende la Repubblica, chi la minaccia? I terroristi che non si rassegnano, perché più della Repubblica amavano il Terrore. Costoro sono un pericolo. E quella specie di... – Chauvelin cercò le parole, – giustiziere da commedia dell’arte, che vuole far le veci dello stato... Un guitto che afferma di combattere i nemici della Repubblica, e intanto fa del repubblicanesimo una farsa... È un patriota? O piuttosto un delinquente?
D’Àmblanc trattenne a stento la rabbia.
– Dunque i sanculotti e Scaramouche sono i veri nemici, e la Gioventù Dorata ha un salvacondotto per combatterli. E questo non è far le veci dello stato? Non è dare la Repubblica in mano a buffoni?
– Vi ho detto come la penso. Ognuno sceglie il proprio destino.
Mesi prima, D’Amblanc avrebbe provato compassione per l’uomo che aveva davanti. Non era che un burocrate, avrebbero detto gli economisti, schiacciato dal peso di un tempo del quale si sforzava d’essere all’altezza. Come tutti. Adesso invece lo sentiva complice della sua sorte. Aveva scelto. O meglio, aveva lasciato che altri scegliessero per lui, scambiando il coraggio per rassegnazione. La rassegnazione non è mai rivoluzionaria.
Sulla scrivania, qualcosa attirò l’attenzione di D’Amblanc. Da sotto il bordo di un fascicolo spuntava un biglietto. Sembrava un invito. Nella prima riga si poteva leggere a chiare lettere: «La Signoria Vostra è invitata al Ballo delle Vittime».
«Signoria Vostra». Era davvero cambiato tutto.
Nell’intestazione c’erano una data e un indirizzo: Palazzo Thellusson, via di Provenza. D’Amblanc provvide a stamparseli nella mente.
– Avreste un gran bisogno di una seduta di magnetizzazione, – disse D’Amblanc quando Chauvelin tornò a voltarsi verso di lui.
L’altro si concesse un sorriso tirato.
– Lo so. Vi assicuro che la tentazione è forte. Ma ormai ho imparato a fare senza di voi e a sopportare stoicamente. Altrimenti non sarei più al mio posto. Meglio lasciarsi così.
D’Amblanc capi l’antifona e si alzò.
– Avete ragione. A ciascuno il suo destino.
Non disse nemmeno addio. Lasciò la stanza gravato dal peso di un pessimo presentimento.
LEGGE DEL 4 NEVOSO, ANNO III
(24 dicembre 1794)
Art. 1. Tutte le leggi riguardanti la fissazione di un maximum sul prezzo delle derrate e delle mercanzie, cesseranno d’aver effetto a contare dalla pubblicazione della legge seguente.
Art. 2. Tutte le requisizioni ordinate fino a quel giorno, per il vettovagliamento delle truppe di terra e di mare e per l’approvvigionamento di Parigi, saranno eseguite.
Art. 4. Le derrate così sottratte verranno pagate al prezzo corrente del capoluogo di ogni distretto.
Art. 9. A mezzo del presente decreto, la circolazione dei grani sarà completamente libera all’interno della Repubblica.
Art. 14. Tutte le procedure cominciate per violazioni fatte alla legge sul massimo sono annullate; i cittadini detenuti in virtù di tali giudizi saranno messi in libertà senza alcun rinvio.
Art. 15. Tutte le requisizioni di derrate o mercanzie, eccetto quelle sopra elencate, sono annullate a partire dalla pubblicazione del presente decreto.