4.

Gli editti sui muri, le giornalaie che strillavano in mezzo alla via, l’andirivieni di muratori, lavandaie, garzoni, le grida degli ambulanti. Parigi era come prima, ma il cielo aveva una tonalità diversa, di un blu metallico, come sa essere soltanto alla fine dell’estate, solcato da nuvole basse, ansiose di proseguire. Gli edifici parevano volersi toccare all’altezza dei tetti, collassare uno sull’altro. L’aria traboccava di fluido magnetico. I corpi che si sfioravano nelle strade avrebbero potuto mandare scintille, pervasi da una consapevolezza nuova, un senso di smarrimento che per paradosso annullava le distanze e rendeva gli esseri umani più simili, perché alla deriva nella stessa burrasca. Erano parte di un’impresa condivisa, in cui ognuno aveva un ruolo – ai remi, alle vele, al timone – e mai come in quel momento D’Amblanc si sentiva prossimo a scoprire il proprio. Non era più fuori luogo, ma precisamente là dove doveva essere.

Eppure faticava a immaginare qualcuno più smarrito di sé stesso. Forse giusto il ragazzino che lo seguiva dappresso, talmente timoroso di perdersi da pestargli i talloni. Jean l’alverniate non aveva mai visto una città in vita sua, e metà di quella vita l’aveva trascorsa nei boschi. Si guardava attorno incredulo, la bocca chiusa e gli occhi spalancati. Dopo il taglio di capelli, un buon bagno e i vestiti nuovi, aveva ripreso la mina di quel che era stato: il piccolo protetto di un aristocratico. Senonché gli aristocratici non esistevano più e l’unica protezione gliela forniva un medico repubblicano che lo aveva tratto a Parigi con un sotterfugio.

La scoperta fatta in Alvernia ribaltava i principi che avevano ispirato l’agire di D’Amblanc negli ultimi dieci anni e inverava ogni sospetto e timore nutrito fino ad allora. Sapeva di essere giunto alle soglie di un Altrove i cui confini non era dato vedere. Doveva decidere, e questo gli metteva paura.

La sera precedente, al momento di congedarsi, il sergente Radoub gli aveva parlato con la consueta sincerità.

«Non sono sicuro che vi farà bene trovare quello che state cercando, dottore. Quindi non vi auguro buona fortuna, ma buona salute. Che Dio vi protegga».

Già, la salute. D'Amblanc le aveva dedicato la vita, convinto che tra quella dell’individuo e quella del corpo sociale vi fosse uno stretto legame. La Repubblica è nulla senza uguaglianza, e l’uguaglianza è nulla senza un rimedio universale contro la malattia. Una terapia capace di guarire tutti allo stesso modo, senza distinguere il nobile dal poveraccio. Una terapia capace di trasformare ogni uomo in medico, di sé stesso come di chiunque altro. Le intuizioni di Puységur avevano additato la via per una simile cura, ma ora il percorso appariva interrotto: la volontà del terapeuta si stagliava nel mezzo, come una forza nuova e imprevedibile.

In piazza della Grava incrociarono un drappello di miliziani in berretto frigio e coccarda tricolore che scortava un uomo in ceppi. Il prigioniero indossava una camicia da notte lunga fino ai polpacci. La stoffa bianca spiccava in mezzo alla macchia scura della scorta. Ai piedi calzava pantofole in stile orientale e camminava con estrema cautela per non inzaccherarle nel fango. Quando incrociò lo sguardo di D’Amblanc, il volto si aprì in un largo sorriso.

Il dottore si domandò se avesse mai visto prima quell’uomo, ma gli parve di no.

– Buongiorno, cittadino! – disse quello ad alta voce. – E buonasera, visto che io di questo giorno non vedrò la fine. Quindi, salutatemi il domani!

Il sorriso dell’uomo era ancora impresso nella mente di D’Amblanc, quando arrivò insieme a Jean davanti a Palazzo Brionne, imponente vestigia del tempo antico, morto e sepolto. La guardia, dopo avere controllato le credenziali, li accompagnò su per lo scalone.

Giunti alla porta della stanza, D’Amblanc fece segno al ragazzino di rimanere seduto sulla panca li fuori. Quindi entrò, annunciato dalla guardia.

Chauvelin lo accolse con un sorriso e una stretta di mano che tradiva apprensione. Possibile che fosse stato davvero in pensiero per lui, si domandò D’Amblanc?

– Prego, sedetevi, dottore. Quando siete arrivato?

– Giusto ieri sera.

D’Amblanc rifiutò la frutta che riempiva un vassoio al margine del tavolo e si accomodò sulla sedia di fronte all’agente del comitato di sicurezza generale. Dietro la grande scrivania dai piedi leonini, con l’alto schienale alle spalle, le mani giunte sullo stomaco, Chauvelin appariva come un antico sacerdote, dispensatore di giustizia. Davanti a lui, sull’ampia superficie liscia, le cause da trattare: vite e destini in forma di carta.

– Voi avevate ragione e io torto, – esordi D'Amblanc senza mezzi termini.

In un certo senso, pensò, non c’era poi molto da aggiungere. L’Alvernia sarebbe potuta sprofondare sommersa dai suoi vulcani, e quella verità sarebbe rimasta incontrovertibile. La prova? L’aveva portata con sé, proprio li dietro la porta: un ragazzino di nome Jean. Jean del Bosco.

Dopo avere ascoltato in silenzio il racconto di D’Amblanc, Chauvelin volle vedere il fanciullo. Lo fecero entrare e Chauvelin gli rivolse un paio di domande. Jean rispose in buon francese, ricordando i giorni in compagnia del cavaliere d’Yvers. Quindi gli ordinarono di uscire di nuovo.

– Molto bene, dottore, – disse Chauvelin. – La vostra scoperta è spaventosa e rassicurante al tempo stesso. Infatti, se è vero che il cavaliere d’Yvers ha plasmato la mente di alcuni contadini, è altrettanto vero che costui agiva per capriccio e non certo contro la Repubblica, dal momento che i suoi... esperimenti si svolsero quando la Repubblica, e addirittura la rivoluzione, erano ancora di là da venire. Inoltre egli è un individuo isolato, senza complici, a quanto mi dite.

– Questo vi rassicura? – chiese D’Amblanc.

Chauvelin lo guardò con aria innocente.

– Non dovrebbe? Un uomo solo, del quale conosciamo persino nome, titolo, provenienza... Preferisco un pericolo del genere, chiaro e circoscritto, alle mille cospirazioni che ammorbano Parigi. I monarchici organizzano evasioni di Maria Antonietta come un tempo organizzavano banchetti nei loro palazzi. Pare che il barone di Grèche abbia offerto un milione per chi riuscirà a liberarla. Poche settimane fa un gendarme della guardianeria ha fermato la prigioniera all’ultimo cancello prima della strada. Lui stesso era stato corrotto, ma per evitare la ghigliottina ha fatto i nomi...

– Voi non capite, – lo interruppe D’Amblanc scuotendo il capo.

Il tono di Chauvelin si fece più impaziente.

– Capisco che il magnetismo è una dottrina pericolosa, come molti sospettavano, e sono lieto che siate giunto a convenirne con me.

– No, maledizione, non capite! – ribattè D’Amblanc.

– Una volta vi dissi che non esistono i magnetisti, solo il fluido magnetico. Grazie a esso, tutti possono diventare terapeuti, se lo vogliono. Ma da quel che ho visto in Alvernia, c’è una cosa che alcuni sono in grado di fare, sempre grazie al fluido: limitare la libertà degli individui, forzarne la volontà, spingersi oltre le loro difese naturali, fino a dove non sappiamo.

Si accorse di avere alzato la voce e di essere balzato in piedi. Sistemò le pieghe della giacca e si ricompose sulla sedia. Chauvelin gli mostrò il palmo delle mani in un gesto d ’ accondiscendenza.

– D’accordo, – disse. – Ma io sono un agente della sicurezza generale, e per quanto riguarda la sicurezza generale, in questo momento ci sono altre priorità. Non posso impiegare uomini, tempo, denaro della Repubblica per correre dietro a una sorta di stregone per reati non politici di molti anni fa. Il resto è una storia di pretonzoli lubrichi e ragazzini che hanno subito angherie, al pari di migliaia di altri bambini di Francia sotto il vecchio regime.

D'Amblanc si rese conto che l’agente Chauvelin non si era mai aspettato gran che dall’indagine alverniate. Essa era stata solo un buon pretesto per allontanarlo da Parigi in un momento di grande pericolo. Per proteggerlo, e forse anche per qualche altro motivo.

– Nel frattempo, – stava continuando Chauvelin, – voi rimarrete al servizio di questo comitato. Abbiamo ancora bisogno dei vostri servigi.

D’Amblanc sollevò la testa.

– I miei pazienti...

– La Francia è il vostro paziente. Lo è per tutti noi. Siete un uomo di grande intelligenza e capite quanto sia importante che ognuno faccia la propria parte.

D’Amblanc lo capiva, ma non era convinto che la sua parte fosse quella che l’altro immaginava.

– Che intendete farne del ragazzino? – chiese Chauvelin.

– Fossi in voi lo affiderei all’autorità pubblica. Gli troveranno una famiglia.

– La sua mente è sconvolta, – obiettò D’Amblanc. – No, non credo che lo abbandonerò. La sorte lo ha messo sulla mia strada e penso che me ne prenderò cura. Inoltre, è la prova vivente del delitto, se mai qualcuno vorrà perseguire chi l’ha compiuto.

Chauvelin sospirò, senza raccogliere la provocazione.

– Come credete. Purché questo non limiti il vostro lavoro –. Fece una pausa per valutare l’impatto di ciò che stava per dire. – Ho un nuovo incarico per voi –. Registrò il silenzio attento del dottore e prosegui. – Maria Antonietta è malata, e come vi dicevo, i complotti per liberarla ci succhiano energie preziose. Pertanto, si è deciso di processarla in tempi rapidi. L’accusa ha mosso svariati capi d’imputazione ed è necessario esaminare Luigi Carlo Capeto. Occorre scoprire se l’austriaca non è in qualche modo venuta meno ai suoi doveri di madre...

Tacque, schiacciato dal peso delle proprie parole.

– Volete che sonnambulizzi il delfino di Francia? – domandò incredulo D’Amblanc. – Volete che estorca delle informazioni. ..

Chauvelin si irrigidì e lo fissò con freddezza.

– Estorcere? Chi ha parlato di estorcere? Ci interessa solo la verità. Ascoltate: il delfino non vede più la madre dal luglio scorso. È affidato alle cure del consigliere Simon e della moglie, affinché lo crescano come un buon repubblicano. I due però si sono accorti che il bambino manifesta gravi segni di disagio: catatonia, indolenza, delirio notturno. Si tratta di scoprire cosa si cela dietro questi disturbi. Il timore è che abbia potuto subire violenze nell’ambiente domestico o di corte. Voi padroneggiate il metodo magnetico. Dunque vi si chiede di visitare il bambino com’è vostra abitudine, lasciando che sia lui stesso a fare la diagnosi mentre è sonnambulo. Tutto qui.

D’Amblanc non seppe cosa rispondere. Le scoperte fatte in Alvernia lo stavano ossessionando: non riusciva più a concepire il magnetismo come una pratica innocua. Prima dell’estate, la precisazione di Chauvelin lo avrebbe tranquillizzato: si trattava soltanto di curare un bambino. Ora però non poteva fare a meno di scorgervi un secondo fine. La volontà degli adulti contro la libertà di un individuo più debole. Si chiese se non l’avessero mandato in Alvernia sperando in una conferma anziché in una smentita dei timori che scuotevano il comitato. Gli aspetti più inquietanti del fluido magnetico potevano tornare utili anche alla Repubblica.

Per chissà quale nesso, ripensò al prigioniero in camicia da notte che gli sorrideva e gli augurava buonasera di primo mattino.

Si alzò di nuovo in piedi, ma Chauvelin gli indicò la sedia.

– Sedete, vi prego, dottore.

D’Amblanc si lasciò convincere, ma rimase rigido, senza appoggiarsi allo schienale.

– Siamo sull’orlo di un baratro, – riprese Chauvelin. – Si tratta di costruire un ponte abbastanza solido per attraversarlo. Se non ci riusciremo, la Francia sprofonderà. Maria Antonietta è colpevole, s’intende, non meno di quanto lo fosse Luigi. Eventuali misfatti commessi contro il figlio non sarebbero decisivi per la sua condanna. Ma certo, se ve ne fosse la prova, il popolo avrebbe diritto di saperlo, per farsi un’idea pili chiara di cosa fu la monarchia.

Chauvelin tacque e rimase in attesa di una risposta.

Dopo un lungo silenzio, dall’altra parte del tavolo giunse invece una domanda.

– Avete notizie della signora Girard? – chiese D’Amblanc.

Lo sguardo di Chauvelin si fece cupo, indagatore, come a sondare l’intenzione dietro le parole.

– So che ha lasciato Parigi. Nient’altro. Non è stata coinvolta nella rovina del marito e tanto basta. La sorte dei brissotini è segnata, attendono solo la sentenza.

D’Amblanc annuí, chiedendosi se Chauvelin avesse avuto parte nella fuoriuscita della donna. Di nuovo, senti riecheggiare le parole dell’uomo in camicia da notte.

«Salutatemi il domani!»

– Le vostre emicranie? – chiese per cambiare ancora argomento.

Chauvelin stirò un sorriso.

– Mettono alla prova il mio spirito di abnegazione.

D’Amblanc si alzò per prendere congedo, ma quando allungò la mano sopra il tavolo per incontrare quella di Chauvelin, si ritrovò fra le dita un foglietto.

– Vi ho segnato l’appuntamento. Il 12 ottobre alle cinque di fronte alla prigione del Tempio. Ci sarò anch’io con il procuratore Hébert.

Quando ebbe richiuso la porta alle proprie spalle, D’Amblanc impiegò qualche secondo a rendersi conto della presenza li accanto.

– Quando incontriamo il cavaliere, signore? – domandò smarrito il ragazzo.

D’Amblanc gli poggiò una mano sulla spalla per confortarlo.

– Presto, Jean. Adesso vieni, andiamo a casa.

CONVENZIONE NAZIONALE

Estratto dal verbale del 15 brumaio

anno II della Repubblica francese

una e indivisibile

(giovedì 6 novembre 1793, vecchio stile)

Presidenza di Moïse Bayle

Si ammette alla barra una deputazione di quattro cittadine, che si annunciano come portatrici di una petizione molto importante e di oggetto urgente, in rappresentanza di svariate sezioni.

una di esse Cittadini, la società delle repubblicane rivoluzionarie, questa società composta per la maggior parte da madri di famiglia, mogli dei difensori della patria, non esiste più. Una legge, a voi estorta con un falso rapporto, ci impedisce di riunirci...

diverse voci Basta! Buttatele fuori! L’ordine del giorno! [Urla e risate].

La Convenzione decide all’unanimità di tornare all’ordine del giorno.

Le donne abbandonano la barra a precipizio, senza attendere la risposta del presidente. La sala riecheggia di applausi.

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