«Cittadino, cittadino», poi il padrone si teneva le mance, tutte o la metà, a seconda di quale piede aveva messo giù dal letto quella mattina.
Per ottenere un trattamento simile, pensava Léo, uno poteva starsene in Italia, a Bologna come a Napoli, o chennesò, a Guastalla. Bella roba, esser salito sul vasto palcoscenico rivoluzionario della Francia, per poi finire a farsi grattare le mance da un padrone. E poi, mica t’andava sempre così bene da servire ai tavoli, al ristorante L’Aurora di Palazzo Egualità: spesso si trattava solo di fare lo sguattero, le mani nell’acqua per ore, a scrostar piatti e posate.
Zitadén... Zitadén ’sti due maroni!, pensò Léo, mentre con un orecchio registrava i lazzi e gli scherni di un gruppo di avventori.
– Pa’ola mia, è inc’edibile. Gua’date quel ga’zone, quello alto una spanna più di ’stocazzo! Mise’abile individuo, nevve’o?
– Tu hai le mille ’agioni, ca'o. Pa’ola mia, non basta la nost’a feccia, ed ecco che spunta quella italiana.
Però un attimo, si disse Léo. Piangersi addosso è il balsamo degli inetti. Un uomo di genio, ancorché sconfitto, non veste mai i panni della vittima. Troppo banale. Il vero artista sa guardare oltre le meschine apparenze. Se si vede costretto a fare lo sguattero, egli sa benissimo di non essere uno sguattero, almeno fintanto che la tortura del risciacquo non lo persuade del contrario. E se lo chiamano «italiano», egli ride. Gli Italiani esistono solo fuori dall’Italia, per chi non ci vive.
– Ehi, fo’estie’o! Italiano!
Sentendosi chiamato in causa, Léo posò su un tavolo i piatti sporchi che stava portando in cucina e guardò il gruppetto con freddezza.
– Pe’ché sei italiano, newe’o?
– Non più di quanto sia sguattero, – rispose.
Dopo un lampo di sorpresa, il tizio prese un tono severo, come quando si parla a un servo o si istruisce un cane.
– La tua appa’enza mise’evole mi distu’ba l’eupepsia, –disse agitando il bastone. – Vedi di p’esentarti al nost'o cospetto acconciato come si deve. Il tuo disgustoso appa’ato è un’offesa ai danni di tutto l'Egualità.
Léo si controllò a stento. Odiava sentirsi prendere per il culo da quei debosciati che parlavano senza pronunciare la erre. Deglutì un bolo di saliva amarissima, sistemò i piatti sul braccio destro, in precario equilibrio, e si allontanò verso la cucina, seguito dalle risate e da un torsolo di mela che lo mancò di un soffio.
– Li chiamano muschiatini, – gli spiegò Andria, un cameriere baffuto di origine corsa, più vecchio di lui di almeno vent’anni, – per via che gli piace mettersi quel profumo al muschio da invertiti. Alcuni li chiamano anche ine'edibili. E pa’ola mia, – disse imitandoli, – non so davve’o pe’ché pa’lino in questo modo.
Léo domandò come poteva essere che la cagnaccia non avesse nulla da ridire sui loro modi e sui loro vestiti, che imitavano quelli dei nobili dell’Ancien Régime.
– Fuori di qui stanno più bassi, – fu la risposta, – ma Palazzo Egualità è il loro territorio. Con tutte ’ste botteghe, gioiellerie, ristoranti per damerini... Finché Saint-Just non avrà fatto piazza pulita, questo rimarrà il loro pisciatoio.
Léo ringraziò per il chiarimento e si riaffacciò sul giardino.
I muschiatini facevano capannello intorno all’uomo che teneva sempre un fazzoletto sulla bocca e sul naso, a mo’ di sciarpa. Léo lo aveva già notato, era uno dei custodi del palazzo. Ancora non aveva capito che genere di affari intrattenesse con quella feccia vestita in modo bislacco. Comunque era circondato dal massimo rispetto, e spesso quelle merde profumate di muschio sembravano aspettarlo.
Léo non ricevette più le attenzioni del gruppo per il resto della giornata.
Dopo la chiusura, ammucchiò le tovaglie nel cesto della roba sporca, spazzò la cucina e avvolse in un strofinaccio tre tozzi di pane secco, per mangiarseli all’indomani, ammollati in due dita di brodo. Quindi spostò il tavolo contro la parete e allineò sul pavimento tre sacchi di riso da mezzo quintale l’uno. Ci stese sopra due coperte, si accoccolò su quelle, se ne tirò una terza fin sotto il mento e scivolò nel sonno.
Nei giorni seguenti, provocazioni, sberleffi e lanci di croste si sprecarono. Di tutti i locali di Palazzo Egualità, i muschiatini avevano eletto a luogo di ritrovo proprio quel ristorante. Dove trovassero i soldi per cenare li tutte le sere, Léo lo ignorava. Posavano da ricchi, ma l’appetito li tradiva: si avventavano sul cibo con la foga di chi ha saltato il pranzo. Intascavano di straforo scarti e ossi di pollo. Lanciavano nella schiena dei camerieri solo le bucce più indigeste. Léo sopportava e sopportava, e si chiedeva spesso chi glielo facesse fare. Non solo le angherie degli inc’edibili, ma anche, forse soprattutto, il fatto stesso di esser costretto a servire. Già, perché li, a dispetto della rivoluzione, di Madama Ghigliottina, della fraternità eccetera, lo trattavano da servo. Proprio da servo, sì.
La sghessa, si rispondeva. La fame, ecco chi me lo fa fare.
Il tizio col fazzoletto sul volto compariva spesso. Teneva conciliaboli. Léo si accorse di passaggi di denaro. Questo spiegava gli abiti e tutto il resto: per certo gli stronzi erano dentro losche faccende, pa’ola mia.
Una sera, Léo si accorse che il tizio era sfigurato. Il fazzoletto era scivolato, ma i muschiatini non avevano fatto una piega. Quindi dovevano esserci abituati, perché quella faccia, la prima volta che la vedevi, poteva impaurire o ripugnare.
L’uomo senza naso salutò e prese la porta. I muschiatini parlottarono tra loro, gesticolando in modo affettato.
All’ora di chiusura, il padrone era solito spostare i tavoli così che vi fosse abbastanza spazio, al centro della sala, per una ventina di persone. Léo finiva relegato in cucina a sguatterare, mentre i muschiatini si esercitavano alla scherma col bastone. Le sale d’armi erano state chiuse d’imperio perché retaggio dell’antico regime, e molti maestri facevano la fame. La gente però voleva ancora imparare a difendersi. Léo spiava dalla fessura tra porta e stipite, per vedere che cosa insegnassero i maestri d’arme francesi e paragonare le loro tecniche con quelle della buonanima di Mingozzi.
La scherma francese col bastone era meno tecnica di quella italiana, ma bisognava ammettere che andava dritta al sodo.
A mani nude, raramente i Francesi tiravano pugni, preferivano le mani aperte.
Anche secondo Mingozzi la mano non era fatta per picchiare, le nocche men che meno. Prendila a pugni tu, la zucca di un modenese!
I Francesi, o meglio i parigini, adottavano uno stile di lotta stradaiola fatto di schiaffi, testate, sbilanciamenti e, soprattutto, calci bassi, subdoli, simili a quelli che si tirano nella scherma da guerra. Pugni e legature no, non erano il loro forte. Chiamavano quella lotta savate, ciabatta, zavata, e i maestri ufficialmente la disprezzavano, perché veniva dai foborghi, ma poi la imparavano e te la insegnavano pure, se avevi da pagarli.
Ogni sera, mentre lavava piatti su piatti in compagnia di una vecchia sorda che non s’accorgeva di nulla, Léo provava i movimenti che aveva spiato, quelli nuovi e interessanti. E più tardi, benché stanco morto, non mancava di provare e riprovare quei gesti e quelli appresi a Bologna, per metterli a confronto e immaginare, sotto i colpi, le facce di culo dei suoi angariatori.