2.

Due colpi alla porta e la luce del crepuscolo erano il segnale dell’ora di cena.

I furiosi ricevevano il pasto attraverso lo spioncino, e spesso il piatto si rovesciava nel passaggio, provocando ustioni e bestemmie. I pacifici, dopo i due colpi d’ordinanza, sapevano che il cibo li attendeva dietro l’uscio.

Laplace aveva imparato a riconoscere gli inservienti dal modo di bussare.

Abbassò la maniglia, la tirò a sé e come previsto si trovò davanti il naso a patata del buon Maurel.

Da quando il dottor Pinel aveva trasferito Malaprez in un altro padiglione, Laplace aveva interrotto ogni rapporto con gli altri alienati, e tra i sani che frequentavano San Prisco, rivolgeva la parola soltanto a Maurel. Non grandi conversazioni, ma abbastanza per accorgersi che l’uomo era il meno rozzo dei colleghi, e l’unico che credesse davvero nei metodi di Pussin. Inoltre, da come camminava, era evidente che soffriva di un dolore ai muscoli o alle ossa.

Laplace prese la scodella di zuppa e la appoggiò sul tavolino senza nemmeno guardarla. Il menu di Bicêtre era fisso e invariabile ogni settimana. Per sapere che giorno fosse, bastava dare un’occhiata alla sbobba: lunedi piselli, martedì cavolo, mercoledì zucca... Ma Laplace non ne aveva bisogno: in nove mesi di permanenza li dentro, non aveva mai smarrito il filo del calendario e così sapeva sempre in anticipo cosa si sarebbe ritrovato nel piatto.

– Notizie di Malaprez? – domandò prima che l’inserviente si allontanasse.

– Sta bene, mangia. E quando non mangia, urla fino a perdere la voce.

– Maledizione! – esclamò Laplace stringendo i pugni.

– Dovreste trovarvi un altro amico, – disse Maurel, – non starvene tutto il tempo chiuso qui dentro a pensare.

Laplace scrollò il capo.

– Quello che il dottor Pinel non capisce, è che guarire Malaprez mi faceva star bene. Anzi, era l’unico modo che avessi trovato per guarire anche me stesso.

– Dicono che voi non lo avete guarito, – puntualizzò l’inserviente.

– È l’invidia che li fa parlare, – fremette Laplace, – e anche il pregiudizio. Scommetto che tutto l’ospizio si fa beffe delle mie capacità.

– È vero che siete pratico del metodo di Mesmer?

– Non esattamente. Io...

Maurel fece il gesto di scacciare una mosca.

– Dicono che nemmeno quello guarisce davvero. Anni fa, per via del mal di schiena, un mio nipote m’aveva consigliato il dottor D’Amblanc, l’unico mesmerista che curasse anche i poveracci. Ma poi s’è saputo che era tutta una buffonata, e sono stato ben contento di essermi tenuto i soldi.

– E il mal di schiena? – indagò Laplace. – Vi siete tenuto anche quello?

– Peggio di prima. Ci sono giorni che non mi riesco a piegare.

Laplace allungò le braccia di scatto e strinse la mano dell’inserviente fra le sue.

– Io posso sconfiggere il vostro dolore, – disse cercando di dosare l’entusiasmo al punto giusto: abbastanza eccitato da sedurre, ma non così invasato da spaventare. – Fatemi provare e non ve ne pentirete.

Maurel si riprese la mano e fece un passo indietro.

– Tranquillo, – continuò Laplace, cercando a fatica una voce mielosa. – Basta che vi sediate qui, che mi diate la mano, e in dieci minuti vi avrò liberato da ogni fastidio. Ho fatto parlare Malaprez: figuratevi se non posso curarvi un mal di schiena.

– Dieci minuti? E se invece non funziona?

– Per voi non c’è nessun rischio, come bere un bicchier d’acqua. Ma per me, il solo fatto della vostra fiducia... non potete capire quanto bene mi farebbe.

– Adesso ho fretta, Laplace, – tagliò corto l’uomo. – Devo distribuire la cena. Ma vi prometto che ci penserò, d’accordo? Buonanotte.

– Buonanotte, Maurel.

Passarono due giorni. Poi un pomeriggio, mentre Laplace meditava sulla resurrezione di Cristo...

Toc, toc. Toc, toc.

Quattro colpi, dati con le nocche, leggeri ma in rapida successione, come piccole martellate sulla testa di un chiodo.

Maurel.

Laplace corse ad aprirgli e dovette trattenere l'esultanza, quando vide che l’uomo si teneva una mano sul dorso e stringeva i denti dal dolore.

– Cinque minuti vi bastano? Ho da fare, e già gli altri mi dicono che perdo troppo tempo a parlare con voi.

– Cinque minuti saranno sufficienti, – sogghignò Laplace indicando la sedia. – Rilassatevi, chiudete gli occhi, cercate di estinguere i pensieri. Sentite il calore della mia mano sulla fronte? Io voglio guarirvi.

Più tardi, i colpi alla porta furono solo due, come per la cena, ma ormai il crepuscolo aveva affidato il cielo alla luna.

Due colpi vibrati con incertezza, come di nascosto. Le campane di San Saturnino li riecheggiarono in lontananza. Don, don.

Laplace scese dalla branda e infilò gli zoccoli.

Dopo le nove di sera, anche la sua stanza veniva sprangata fino al mattino seguente.

Maurel girò la chiave nel lucchetto e spalancò l’uscio. Reggeva una lanterna, e alla luce della fiamma i suoi occhi erano fissi e spenti.

– Venite, mio signore, – disse con un mezzo inchino, quindi voltò le spalle e si avviò.

Laplace lo segui. Stese una mano sopra la sua testa e si concentrò, giusto per rafforzare il comando magnetico che gli aveva impartito nel pomeriggio.

Questa notte, alle due, verrai a prendermi nel mio alloggio.

Attraversarono il padiglione, sfilando di fronte alle celle degli alienati. Oltre le porte si sentiva russare, pregare, parlare a vanvera di rivoluzione.

Mi accompagnerai al dormitorio comune. Se qualcuno dovesse incontrarci, dirai che mi stai portando a prendere aria, perché ho avuto un attacco di mal di chiuso.

Nella corte centrale, una famiglia di topi tagliò loro la strada.

C’era nebbia fitta, di quella che si infila sotto i pastrani e rende il freddo ancora più freddo. Laplace ne fu certo: nessuno avrebbe potuto scorgerli, anche affacciandosi a una finestra in quel preciso momento. Si complimentò con sé stesso per aver scelto la notte ideale. La fontana gorgogliava invisibile oltre lo stormire dei platani.

Una volta arrivati, mi aprirai la porta e mi lascerai dentro fino a che non ti ordinerò di riaccompagnarmi alla stanza.

Maurel studiò il mazzo di chiavi. Al terzo tentativo trovò quella giusta per far scattare la serratura. Il dormitorio comune si aprì di fronte a Laplace.

– Aspettami qui, – disse all’inserviente. – Interverrai solo se ti dovessi chiamare.

– Come volete, mio signore, – rispose quello mentre gli consegnava la lanterna.

Laplace entrò, vincendo un conato per via del fetore. Gli alienati erano tutti nei loro letti, tranne uno, che a giudicare dalla postura stava pisciando in un angolo dello stanzone. Degli altri, la maggioranza si rigirava senza prendere sonno, alcuni dormivano, altri erano seduti, le ginocchia al petto, intenti a masturbarsi o a fissare il muro. Per il momento, nessuno si era accorto di lui.

Laplace strinse i pugni e fece appello a tutte le sue forze. Liberò la mente, ne affilò la volontà.

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