Nel giro di pochi giorni, la primavera sembrava essersi decisa a conquistare la campagna intorno alla tenuta che era stata dei marchesi di Puységur. Sugli alberi crescevano le ghiande, il verde dell’erba si faceva più intenso, e persino il canto degli uccelli si era alzato di tono, in onore della rinascenza stagionale.
A D’Amblanc non sembrava affatto di trovarsi nel mezzo di una rivoluzione, in un paese in guerra con tutte le potenze d’Europa. Quel luogo era così diverso e lontano dallo sconquasso parigino e ancora di più dalla selvaggia asprezza d’Alvernia. Inoltre li poteva osservare all’opera il proprio mentore, dopo tanti anni discutere con lui, magnetizzare i suoi pazienti. Chastenet si dedicava a loro come un padre avrebbe fatto coi propri figli. Aveva una parola per tutti ed era ricambiato da un amore incondizionato. Il suo nome non veniva quasi mai pronunciato, forse per l’imbarazzo dei domestici e dei villici su come appellarlo: non più marchese, non più signore, e forse il semplice «cittadino» pareva loro irriverente. Dunque Chastenet era soltanto «Lui». E non c’erano dubbi sul fatto che Lui fosse il faro per le anime in pena squassate dallo scompenso magnetico che si radunavano alla sua piccola corte.
La Francia restava fuori dei cancelli.
– Fu ciò che mi diceste anni fa, quando ci incontrammo a Parigi. Diceste che il bene avrebbe fatto la differenza. Che nessuno avrebbe potuto magnetizzare o sonnambulizzare qualcun altro senza il suo consenso, allo scopo di nuocergli. Lo dimostraste, ricordate? L’avvocato Bergasse intimò a una dama in sonno magnetico di togliersi i vestiti e lei oppose un categorico rifiuto.
– Ricordo, si... – disse Chastenet, assumendo l’espressione vaga di chi si perde nel labirinto della memoria. – Che ne è stato di Bergasse?
D’Amblanc non si aspettava quella domanda, ma rispose senza esitare.
– Fuggiasco.
Chastenet annuí in silenzio. Tornò al presente e dedicò al dottore il sorriso lieve di sempre.
– E ora voi sostenete che il ragazzo rappresenterebbe la prova che mi sbagliavo.
Guardarono entrambi il sonnambulo Jean, gli occhi socchiusi, seduto sul sofà nello studio del terapista. Era pomeriggio, la luce entrava dalla portafinestra e illuminava gli oggetti sulla scrivania, rassicuranti nei loro contorni ben definiti. Un fermacarte, il calamaio, alcuni libri. Persino la sciabola appesa alla parete faticava a richiamare alla mente il caos della guerra e si sarebbe dato per certo che la lama avesse da tempo perso il filo.
Osservando Jean, per un istante D’Amblanc ebbe la visione del delfino, seduto nella stessa posizione, le mani sulle ginocchia, tanto composto quanto più miserabile e stazzonato. Senti nuovamente la rabbia per l’ignobile pantomima di Hébert. Scacciò l’immagine e poco mancò che vi aggiungesse un gesto inquieto della mano. Si trattenne e fissò ancora Jean. Indossava persino una giacca, per l’occasione. Essere magnetizzati alla presenza di Chastenet non era cosa di tutti i giorni. D’Amblanc aveva indotto il sonnambulismo da pochi minuti. Non poteva negare a sé stesso d’essere emozionato. Eccoli infine alla prova decisiva.
– Come intendete procedere? – chiese Chastenet.
D’Amblanc si schiari la voce.
– Finora, ogni volta che Jean del Bosco è tornato in superficie sono riuscito a tenerlo sotto controllo sonnambulizzandolo e appellandomi a Jean del Castello, il ragazzino mite che avete davanti.
– Ne parlate come se fossero due persone distinte, – osservò Chastenet.
– In effetti lo sono, – disse D’Amblanc. – Una scaccia l’altra. Ora vorrei tentare di fare il contrario: portare in superficie il ragazzo selvaggio –. D’Amblanc indirizzò un lieve inchino del capo al padrone di casa e si posizionò davanti al ragazzino. – Jean, puoi dirmi cosa causa i tuoi attacchi di rabbia? – chiese.
Jean impiegò alcuni secondi prima di trovare le parole.
– La voce nella testa.
– Senti una voce? Di chi?
Silenzio.
– La voce del cavaliere d’Yvers?
Nel pronunciare quel nome, D’Amblanc ebbe un brivido. Rivide lo sguardo spiritato di Margot, la profetessa bambina, figlia dell’angelo che aveva messo incinta sua madre. Dovette respirare forte per impedire ai ricordi di alterare il suo stato d’animo.
– Si, – rispose Jean.
– Che cosa ti dice quella voce?
L’espressione di Jean mutò, la faccia si contrasse.
– È come un verso... come un... cane.
Sollevò le mani per proteggersi da colpi invisibili.
D’Amblanc e Chastenet scambiarono un’occhiata fugace. Jean si accucciò, abbracciandosi la testa. Erano bastonate, non c’erano dubbi, e sembrava che le sentisse davvero. Iniziò a guaire, e poco alla volta il verso divenne il ringhio di una bestia ferita, un misto di odio e paura. Finché il ragazzino non spalancò le braccia e latrò il proprio furore.
Jean del Bosco era tornato.
D’Amblanc si rese conto di avere perso il controllo magnetico sul ragazzino, che saltò in piedi sulla sedia e da lf sulla scrivania. Il calamaio si rovesciò, lasciando colare fuori l’inchiostro nero.
– Mi credete ora? – disse D’Amblanc.
Chastenet appariva teso, l’espressione serafica era svanita.
D’Amblanc si avvicinò al ragazzino, le mani tese in avanti, nel tentativo di ristabilire il contatto magnetico, ma lui balzò sul mobile vicino alla parete.
– Potrebbe farsi del male, – disse Chastenet.
D’Amblanc annuí.
– È sufficiente immobilizzarlo e ristabilire la catena magnetica, per richiamare Jean del Castello. L’ho fatto altre volte.
In quel momento accadde qualcosa che D’Amblanc non aveva previsto. Jean allungò una mano e trovò l’impugnatura della sciabola appesa alla parete. Brandi l’arma e digrignò ancora i denti contro i due uomini.
Il dottore fece un altro passo avanti. Questa volta udì il sibilo dell’aria tagliata poco sopra l’orecchio.
– Credo sia meglio chiamare qualcuno a dare manforte, –suggerì, e mentre lo diceva si accorse di riconoscere a stento la propria voce.
Chastenet non fiatò. Si limitò a girare sull’altro lato della stanza, raggiungendo la porta sul fondo. La socchiuse e gridò un nome, finché un domestico accorse e ricevette un ordine.
Presto il domestico fu di ritorno e consegnò al padrone di casa una cassa di legno senza coperchio. D’Amblanc vide che conteneva sei strane bottiglie. Su un lato, tenuta in posizione da due ganci, c’era un’asta d’ebano con l’impugnatura in cuoio e un grilletto che sembrava quello di un fucile. Chastenet la agguantò. Due cavi la collegavano al contenuto della cassa, mentre all’estremità opposta aveva due punte metalliche, simili a chiodi.
– Un folgoratore? – chiese D’Amblanc incredulo.
L’altro non rispose e si avvicinò a Jean. La scena era grottesca. Sciabola contro bastone. Il ragazzo dei boschi contro il grande magnetista.
– Che intendete fare? – domandò D’Amblanc.
– Impedire che ci stacchi la testa, – fu la risposta secca.
Chastenet protese l’asta fino a toccare con la punta la lama della sciabola. Jean venne sbalzato all’indietro, sbattè contro la parete e cadde sul pavimento.
D’Amblanc si affrettò a soccorrerlo. Era cosciente, gli occhi sbarrati. Tastò il polso per controllare il battito. Quindi lo prese in braccio e lo depose sul divano.
– Jean? – chiese timoroso.
Il ragazzo strinse gli occhi.
– Si, signore...
D’Amblanc tirò un sospiro di sollievo.
– Ti senti bene?
– Mi gira la testa, signore...
D’Amblanc gli passò una mano sulla fronte, poi si volse verso Chastenet che stava riponendo l’attrezzatura.
– Lo avete folgorato!
– A mali estremi, estremi rimedi. Un flusso elettrico improvviso può spezzare quello magnetico. Finora lo avevo sperimentato solo sui polli, ma...
Il dottore si alzò e si parò davanti a Chastenet. Si sentiva spaesato.
– E se gli aveste fermato il cuore?
L’altro si sforzò di recuperare l’espressione serafica.
– La carica delle bottiglie non era sufficiente, – sentenziò. – E poi io non volevo fargli del male.
– E dunque? Intendete dire che anche il fluido elettrico agisce secondo la volontà?
– Intendo dire che la volontà di fare il bene è la forza più grande che vi sia nell’universo.
D’Amblanc scrollò la testa, mentre il suo maestro raccoglieva la sciabola per appenderla di nuovo alla parete. Quindi Chastenet richiamò il domestico e gli chiese di prendersi cura di Jean. L’uomo sollevò il ragazzino e lo portò fuori.
Rimasti soli, i due magnetisti tacquero per alcuni minuti, come dovessero raccogliere le idee dopo quanto avevano visto accadere sotto i loro occhi. D’Amblanc si massaggiò a lungo il costato.
– La vostra vecchia ferita? – chiese Chastenet.
– Che ci crediate o no, in Alvernia una bambina sonnambula è riuscita a farmi contorcere dal dolore.
Chastenet sospirò e fece alcuni passi per la stanza, prima di andarsi a sedere alla scrivania inondata d’inchiostro.
– Voi, dottore, date per scontate molte cose.
D’Amblanc s’irrigidì.
– Il cavaliere d’Yvers ha magnetizzato Jean. Ha plasmato la sua personalità fino a farne un aristocratico, poi gli ha ordinato di soffocarla per lasciare spazio alla più bestiale ferinità. È un abominio.
Il padrone di casa tamponò la macchia d’inchiostro come meglio poteva, ma alla fine rinunciò a rimediare al disastro e con aria rassegnata si appoggiò allo schienale.
– È un’ipotesi. La vostra ipotesi, amico mio.
Nel tono di voce c’era una vena di scetticismo che irritò D’Amblanc.
– Ho visto con i miei occhi cosa ha fatto Yvers in Alvernia!
Chastenet alzò una mano in segno di pace.
– Avremo tutto il tempo di capire meglio. Jean è al sicuro qui. E lo siete anche voi.
– Io? Io sono venuto per sottoporvi il caso, – obiettò D’Amblanc.
– Certo. Ma siete anche molto stanco e scosso. Non negatelo, per favore –. Chastenet si alzò e fece segno all’altro di precederlo. – Andiamo a informarci sulle condizioni del ragazzo, volete?
D’Amblanc esitò, incerto sul proprio stato d’animo e su ciò che avrebbe voluto dire. Infine annuí rassegnato e si diresse verso la porta.