I.

Sedevano uno di fronte all’altro. Il bambino lo fissava indifferente, i capelli biondi tosati corti, come il pelo di un bracco, il muso arrossato dal freddo.

Portava abiti di taglia troppo piccola: i polsi spuntavano di mezza spanna fuori dalle maniche, le brache stringevano le cosce.

Il custode Simon disse che con i soldi che gli davano era difficile rinnovare il guardaroba.

– Il grosso se ne va per la cibaria.

In effetti, pensò D’Amblanc, tutto si poteva dire del prigioniero, tranne che fosse denutrito. Del resto Simon, sua moglie e il delfino mangiavano alla stessa tavola, e si vede che il guardiano amava farsela imbandire dal cuoco del Tempio, il famoso Gagnié, che un tempo era stato in servizio alla reggia di Versailles. L’esistenza di Luigi Carlo, per di più, era molto sedentaria. I rapporti sulla sua vita di recluso parlavano di una passeggiata giornaliera sul cammino di ronda e di rare uscite nel giardino, stretto fra la Gran Torre e il muro che la cingeva.

Simon seguitò a parlare restando accanto al medico e fissando il bambino, come se volesse mettersi nei panni del terapeuta.

– Abbiamo dovuto togliergli di dosso la patina da principino, vedrete che alla fine ne verrà fuori un buon repubblicano. Uno del popolo. Gli ho insegnato a bere il vino e a parlare sciolto, senza tanti salamelecchi. E dato che sa già leggere, mia moglie lo fa esercitare sul «Papà Duchesne».

L’uomo appariva soddisfatto del proprio lavoro.

– I sintomi, cittadino Simon.

Era la voce di Chauvelin. Proveniva dalla parete in ombra, in fondo alla stanza. Il funzionario era in piedi, appoggiato alla scrivania dell’ultimo re di Francia.

– Certo, – bofonchiò il custode. – In buona sostanza si sveglia di notte, urla, trema come una foglia, a volte si piscia e si caca sotto, con rispetto parlando... – Si grattò la testa in cerca di qualcosa che sentiva di avere tralasciato, finché non la ricordò: – Fa il muto.

– Intendete che è taciturno? O volete dire che non risponde a segno? – chiese D’Amblanc.

Il custode scrollò le spalle, come non cogliesse la differenza tra le due cose.

– Dico che a volte se ne sta anche un giorno intero senza spiccicare parola, – tagliò corto.

– E questo atteggiamento da quanto va avanti?

– Io l’ho sempre visto così, – rispose Simon.' – Cioè da quando l’hanno preso via dal piano di sotto, dove stava sua madre, e l’hanno portato qui con me, nell’appartamento del Capeto. Si vede che ’sta stanza gli ricorda la capoccia di suo padre...

– Grazie, cittadino, – lo interruppe D’Amblanc. – Vogliate lasciarci, adesso.

Simon parve interdetto, poi consultò con lo sguardo Chauvelin e l’altra figura accanto a lui, un uomo dal viso affilato, i capelli lunghi fino alle spalle e un sorrisetto fiero che sembrava difficile togliergli dalla bocca.

Se Chauvelin era presente all’interrogatorio per conto del comitato, Jacques–René Hébert era li come sostituto procuratore del comune di Parigi, con l’incarico di imbastire il processo a Maria Antonietta. Il redattore del «Papà Duchesne», colui che appellava Gesù «il primo sanculotto», era una vera autorità, fra le mura del Tempio.

Al cancello principale, il portiere lo aveva salutato come una vecchia conoscenza, e D’Amblanc non aveva nemmeno dovuto mostrare il lasciapassare del comune. Entrati nel cortile, un commissario li aveva raggiunti di corsa e li aveva scortati attraverso il Palazzo del Gran Priore dei Templari, trasformato in caserma della guardia nazionale. Hébert si era intrattenuto con un ufficiale in divisa, per domandare se vi fossero richieste, osservazioni sui turni di sorveglianza. Più che il sostituto procuratore di Parigi sembrava il sindaco, quantomeno di quello spicchio di città. Quindi avevano seguito il commissario nel secondo cortile, dominato dalla mole della Gran Torre, e anche per attraversarne il muro di cinta non erano servite grandi formalità.

Alla vista di Hébert, il secondino che stava nella garitta di qua dalla barriera si era attaccato al filo del campanello, per avvertire il compare dalla parte opposta. Il cancelletto pedonale, infatti, si apriva solo se i due infilavano le rispettive chiavi su entrambi i lati della serratura. Stessa sollecitudine, condita con citazioni delle ultime sparate del «Papà Duchesne», anche da parte delle sentinelle alla porta della Gran Torre, dei commissari nella sala del consiglio e infine di Antoine Simon, che li aveva accolti nell’anticamera del secondo piano, tra la stufa e il quadro con la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.

D’Amblanc avrebbe preferito restare solo con il bambino, senza il peso di quelle presenze alle spalle. Non potendo ottenere tanto, aveva preteso che uscisse almeno Simon, dato che il prigioniero poteva lasciarsi condizionare dalla presenza del suo guardiano.

Dopo che Hébert, con un cenno del capo, confermò a Simon che poteva congedarsi, D’Amblanc iniziò la magnetizzazione.

– Chiudete gli occhi, – ordinò in tono calmo. – Come vi chiamate?

– Luigi Carlo Capeto.

Un lieve colpo di tosse alle spalle di D’Amblanc.

– È opportuno che usiate il «tu».

D’Amblanc si voltò lentamente e inquadrò Hébert, che aveva parlato, ma Chauvelin intervenne prima che potesse ribattere alcunché.

– È un infante. Si sentirà più in confidenza, non credete?

D'Amblanc decise di non aggiungere nulla. La novità di quei giorni era l’usanza di darsi del tu, per sottolineare l’uguaglianza tra cittadini e l’abolizione di ogni forma reverenziale, residuo dell’antico regime. Tornò dunque al suo paziente, risoluto a dare del tu a colui che per molti era Luigi XVII, re di Francia e di Navarra, con tanto di ambasciatori in ogni corte d’Europa.

– Quanti anni hai?

– Ne ho compiuti otto il 27 di marzo.

D’Amblanc appoggiò le dita sulla fronte del bambino. Pensò che stava imponendo le mani sul corpo di un re guaritore, per chi ancora ci credeva. Eppure in lui non vedeva che un piccolo paziente, bisognoso d’essere guarito.

Prese le mani del bambino nelle sue e gli tenne i palmi verso l’alto, con un contatto leggero. Non poteva occorrere molto tempo per sonnambulizzare un soggetto così vulnerabile e provato dagli eventi.

– Dormi, hai bisogno di riposo... – mormorò. – Dormi.

Attese che il respiro si facesse lento e regolare e percepì il fluido magnetico scorrere tra loro due.

– Cosa ti spaventa di notte?

Il bambino impiegò qualche istante a rispondere.

– I brutti sogni.

– Che cosa sogni?

Silenzio. D’Amblanc si preparò a cambiare domanda, quando il ragazzino d’un tratto rispose.

– La merda.

D’Amblanc percepì il sussulto alle proprie spalle. Quella parola stonava con la faccia d’angioletto miserabile del bambino.

– Chi ti ha insegnato questa parola? – chiese.

– Simon dice che si dice così, – prosegui il bambino. – La merda esce dal gabinetto. Ha la forma di un uomo piccolo. Ci sono anche scarafaggi e topi, che gli strisciano dietro. Cammina nella stanza.

– Hai paura?

– Si. Quando viene buio lui esce dal gabinetto, là dietro, nella torretta d’angolo. Mi dice che devo morire.

D’Amblanc ripensò alle parole di Simon: «Si caca sotto, con rispetto parlando».

– È per questo che non defechi nel gabinetto?

– Ho paura che mi prende e mi trascina giù.

Il dottore senti ancora scalpitare dietro di sé. Poi la voce di Hébert, in un sussurro:

– Non ci interessano i suoi bisogni corporali. Dobbiamo chiedergli della madre. Chiedigli della relazione con la madre, cittadino D’Amblanc.

Chauvelin intervenne per mettere buono Hébert.

D’Amblanc scosse la testa.

– Sai dov’è tua madre?

– No.

– Cosa facevate quando lei era qui?

– Avevo i capelli lunghi e lei me li pettinava. Giocavamo a dama. Mi faceva leggere vecchi libri di storie.

Lo sguardo di D’Amblanc scivolò sulla chioma sudicia, uguale a quella di ogni ragazzino dei vicoli di Parigi.

– Che genere di storie?

– Storie di cavalieri e di principesse.

Il sibilo compiaciuto di Hébert attraversò la stanza, seguito da quello di Chauvelin che lo redarguiva ancora sottovoce.

Il dottore strinse appena un poco di più i polsi del bambino.

– Chiedigli come lo appella la madre... – suggerì ancora Hébert.

Il medico rivolse la domanda al bambino, che rispose senza esitare.

– Luigi Carlo... – esitò un istante, come se dovesse ricordare, poi aggiunse: – Altezza reale.

– Ti ha mai detto che sareste potuti andare via dal Tempio? – chiese D’Amblanc.

Le orecchie si tesero, niente sibili o suggerimenti ora. Silenzio e attesa.

– No.

Per qualche ragione quella semplice sillaba caricò un peso enorme sulle spalle di D’Amblanc. Non che avesse sperato in un’altra risposta, com’era probabilmente per il pubblico accusatore. A schiacciarlo era l’assoluta rassegnazione che avvertiva nella risposta. Provava pena per l’essere che aveva davanti, derelitto, sporco e solo. Eppure lui e sua sorella, reclusa al piano di sopra, sarebbero stati forse gli unici della famiglia a salvarsi. Gli unici ad avere un futuro.

– Qual è stata l’ultima cosa che tua madre ti ha detto prima di lasciarti?

Pronunciò la domanda senza sapere se stava conducendo l’interrogatorio che gli era stato commissionato o se non era piuttosto in cerca di una speranza per quel bambino.

– Ha detto che se non ci vedremo mai più devo confidare in Nostro Signore.

– Chiedigli se mentre lo pettinava lo accarezzava... – sussurrò Hébert.

D’Amblanc strinse i denti per non insultarlo. Non voleva rischiare di interrompere bruscamente la sonnambulizzazione. Finse di non aver udito, ma prima che potesse chiedere altro, il bambino parlò, con gli occhi ancora chiusi e il respiro regolare di un dormiente.

– Mi accarezzava i capelli.

Sollevò una mano e prese a passarsela sul capo, ravviando ciocche immaginarie.

D’Amblanc senti ancora nell’orecchio il bisbiglio fastidioso di Hébert.

– Chiedigli se sua madre lo ha mai toccato...

Questa volta D’Amblanc dovette raddoppiare gli sforzi per non esplodere. Strinse la mandibola, respirando a fondo, deciso a non aprire più bocca.

Fu il bambino a parlare.

– Ho paura...

– Di cosa? – si affrettò a chiedere D’Amblanc. – Del gabinetto?

Il bambino scosse la testa.

– Di voi... – Una mano si sollevò a indicare il torace di D’Amblanc. Subito il medico ricordò il gesto della piccola Margot e provò un brivido. – Del vostro male, – aggiunse il bambino. Poi l’indice si spostò a indicare sopra la spalla di D’Amblanc: – Del suo male alla testa.

D’Amblanc sapeva che Chauvelin lo fissava dal fondo della stanza.

– E io? – intervenne Hébert avvicinandosi con tono sarcastico. – Non ho mal di testa, io?

Il bambino aprí gli occhi di scatto e il procuratore trasalì, come se quello sguardo azzurro gli avesse sbarrato la strada.

– Voi la testa la perderete.

– Ah! – sbottò Hébert. – Che io sia dannato se quella puttana infida non mi precederà!

– Basta così! – intervenne Chauvelin.

D’Amblanc si alzò in piedi, scostò Hébert con una spallata e prese la porta. Nell’anticamera lanciò un addio all’indirizzo di Simon e spari nel corridoio che conduceva alla torretta con la scalinata a chiocciola. Sia la porta di legno che quella di ferro erano rimaste aperte. Scese i gradini di corsa, attraversò la sala al pianoterra e uscí di slancio.

Salutò con sollievo l’aria fresca del giorno e respirò a pieni polmoni la brezza autunnale che spirava tra gli alberi.

– D’Amblanc, aspettate!

Chauvelin lo raggiunse a passo spedito.

– Andate al diavolo, – disse D’Amblanc puntando il cancelletto nel muro di cinta.

Il poliziotto aggirò un platano e si parò davanti al medico impedendogli di proseguire.

– Esigo la vostra opinione professionale.

– La mia... – D’Amblanc scosse la testa incredulo. – Quel bambino è sporco, insonne e sconvolto. Cos’altro volete che vi dica?

Lasciò ancora che l’aria secca e fredda gli riempisse il petto. Ebbe un capogiro. Appoggiò la mano al tronco dell’albero, ne senti la scorza sotto i polpastrelli. Era qualcosa di concreto, di solido, veniva voglia di scorrerci sopra le dita, di grattare la corteccia e staccarne grosse placche grigie.

– Quel bambino ha vissuto sull’Olimpo da quando è venuto alla luce, – ribattè Chauvelin. – Deve soltanto abituarsi a vivere sulla terra, come tutti i mortali.

– Credete sia questo? – domandò D’Amblanc ancora in tono scettico. – In pochi mesi ha perso il padre, lo hanno separato da sua madre e da qualunque persona conoscesse. È spaventato e triste.

La rabbia scavò tra le sopracciglia di Chauvelin una ruga profonda, che pareva dovesse inghiottirgli l’intera fronte.

– Pensate davvero che rendere felice il rampollo del Capeto possa essere una nostra priorità? Avete idea di quanti sono i bambini francesi che soffrono?

D’Amblanc scosse il capo.

– Non è questo. Abbiamo scritto che lo scopo della società è la felicità comune.

– La felicità comune implica l’infelicità dei nemici del popolo, – continuò Chauvelin. – Grassatori, accaparratori, tiranni. Luigi Carlo Capeto era destinato a diventare il prossimo tiranno di Francia, invece sarà un libero cittadino della Repubblica. Vi pare poca cosa?

– Mi pare che al momento sia tutt’altro che libero.

– Al momento. Perché se ora lo liberassimo, sarebbe schiavo del suo destino di re. Bisogna prima educarlo alla vera libertà.

– Sarà comunque un orfano, – disse D’Amblanc, senza più voglia di litigare. Voleva soltanto andarsene, essere lasciato in pace.

– Sapete che a questo non c’è alternativa, – ribattè Chauvelin. – La Francia è piena di orfani. Orfani di oppositori alla tirannide, orfani di oppositori della rivoluzione, orfani di guerra. La Repubblica si occuperà di tutti loro.

– La Repubblica, si... – disse D’Amblanc. – Non c’è niente che io possa fare per quel bambino. E non c’è niente che possa fare per voi e per il vostro processo. Ho creduto che Parigi fosse il posto giusto. Non ne sono più così sicuro.

La ruga di Chauvelin si mosse come animata di vita propria.

– Volete mollare la presa, dottore? Credete di potervi nascondere dalla storia?

D’Amblanc fece per smarcarsi muovendo un passo di lato, poi si fermò.

– Ci sono modi di nascondersi anche rimanendo alla ribalta.

Chauvelin lo fissò, incerto su cosa volesse dire.

– Abbiate il coraggio di parlare chiaro, dottore, – lo sfidò.

– Perché non cominciate voi? Che fine ha fatto la signora Girard? – chiese a bruciapelo D’Amblanc.

– Ve l’ho detto. Ha lasciato Parigi.

– Dov’è?

Chauvelin rimase zitto. La sua reticenza fu più esplicita di qualunque risposta.

– Torno ai miei pazienti, – disse D’Amblanc.

Mentre si allontanava senti alle spalle la voce di Chauvelin.

– Siete chiamato a qualcosa di più alto che aiutare il vostro ragazzo selvaggio. Voi lo sapete, D’Amblanc.

Il dottore continuò a camminare.

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