4.

Poco prima di mezzogiorno, sotto un sole tiepido, i due viaggiatori scesero dalla vettura all’imbocco di un lungo viale costeggiato sui lati da file di cipressi, alla maniera toscana.

Il cocchiere frustò i cavalli e la carrozza riparti sollevando una nuvola di polvere giallastra.

D’Amblanc si spazzò le maniche della giacca. Il ragazzino si era avvicinato a uno dei pilastri di mattoni che delimitavano l’ingresso alla tenuta. Lo stemma nobiliare era stato rimosso a colpi di scalpello.

– Dovrò restare qui? – chiese il ragazzo.

D’Amblanc non seppe cosa rispondere.

– Non è un brutto posto, – bofonchiò facendo qualche passo all’intorno.

Il viaggio era stato scomodo e noioso, in compagnia di un agente del comitato di salute pubblica in missione a Soissons e di un prete federato, secco come un chiodo, che non aveva mai alzato il naso dal breviario. Avevano attraversato una campagna monotona, villaggi popolati da contadini magri, già in là con gli anni, e bambini che razzolavano in branchi e inseguivano la carrozza vociando, fino alla fine dell’abitato, prima di lasciarla filare via, lungo la strada polverosa.

D’Amblanc si senti in dovere di parlare ancora al ragazzo.

– Qui vive una persona che può aiutarti a guarire.

– Sono malato, signore?

D’Amblanc guardò Jean con condiscendenza.

– Non chiamarmi signore. I signori non esistono più. E tu non sei malato, ma hai ugualmente bisogno d’aiuto. Siamo qui per questo.

In realtà D’Amblanc sapeva di essere parte in causa, di volersi confrontare con qualcuno che parlasse la sua lingua. Da troppo tempo, dopo la diaspora dei mesmeristi, conduceva la sua attività in solitudine. Ora che aveva con sé la prova dell’inesattezza dell’assioma di Puységur, doveva parlare con lui. Gli aveva soltanto accennato al problema, nella lettera che aveva inviato pochi giorni prima di partire, annunciando al vecchio mentore il suo imminente arrivo. De visu gli avrebbe detto dei due Jean che vivevano nello stesso corpo. Quello posato, che parlava come un damerino di prima della rivoluzione, e quello selvaggio, che si arrampicava sugli armadi ringhiando come un lupo, tanto che l’ultima volta c’era voluto del bello e del buono per tirarlo giù, sonnambulizzarlo e riportarlo alla vita civile.

Era inquietante pensare che entrambe quelle persone erano il prodotto di un intervento esterno: l’educazione e il suo contrario. Un orfano miserabile educato come un nobile sotto trattamento sonnambolico e poi fatto regredire a uno stadio bestiale attraverso la stessa pratica. D’Amblanc aveva quasi pudore a formulare quel pensiero. Chiunque avesse commesso il misfatto aveva agito come fosse un esperimento, un gioco, per dimostrare qualcosa a sé stesso: il proprio potere assoluto su un inerme. Era un’idea orribile, che D’Amblanc teneva relegata in un angolo della mente, senza consentirle di dilagare e scatenare il malessere.

Per qualche ragione pensò agli indiani che lo avevano torturato in America e compì il gesto usuale di toccarsi il costato. Per loro era del tutto diverso: torturare il prigioniero era un modo di omaggiare il suo coraggio, dandogli la possibilità di resistere al dolore e morire da uomo.

Tastandosi udì un rumore di carta stropicciata, nella tasca dove teneva il lasciapassare, quello che Chauvelin gli aveva fornito per l’Alvernia. Da quando era tornato, lo teneva sempre con sé, come buona precauzione, anche se avrebbe dovuto restituirlo. Sulle prime si era sentito in colpa per quella piccola infrazione, ma dopo che l’uomo del comitato gli aveva chiesto di visitare il delfino, e di sopportare quell'invasato di Hébert, gli sembrava che il pezzo di carta fosse un giusto risarcimento.

D’Amblanc guardò ancora il ragazzo e si domandò che ne sarebbe stato di lui. Senz’altro, la capitale non era posto per Jean del Bosco. E forse non lo era più nemmeno per Orphée d’Amblanc.

Raccolsero i bagagli e insieme si incamminarono verso la grande magione che sorgeva in fondo al viale, circondata da un boschetto di faggi, come un enorme animale accucciato nella tana.

D’Amblanc si meravigliò di non incontrare un guardiano, né un giardiniere o un guardiacaccia. Proseguirono fino al boschetto e soltanto allora si imbatterono in una dozzina di persone, uomini e donne, che si tenevano per mano formando un cerchio intorno all’albero più grosso, un vecchio faggio nodoso.

Tra loro e l’albero, un solo individuo, che D’Amblanc non ebbe difficoltà a riconoscere. Indossava un pastrano di seta aperto sul davanti, e alti stivali da cavallerizzo. I capelli corti esaltavano il naso largo e schiacciato. Occhi chiari e vivaci.

– Lasciate scorrere il fluido, – stava dicendo il magnetista.

– Lasciate che scorra tra di voi. Nessuno spezzi la catena.

Si avvicinò al tronco e vi appoggiò sopra una mano a palmo aperto. Quindi con l’altra afferrò le mani giunte dei due che gli erano più prossimi e fu come se trasmettesse loro una scarica elettrica. Il cerchio prese a oscillare, scosso da un’onda. Qualcuno gettò la testa all’indietro, qualcun altro iniziò ad ansimare forte. Il magnetista rafforzò la presa, gli occhi chiusi nella massima concentrazione. Tornò il silenzio, i corpi si placarono. Ora parevano tutti addormentati.

– Michel, vuoi dirci qualcosa?

Un contadino basso e smunto parlò con voce impastata.

– Il maldipanza non lo sento mica più. Quando che sto qui con voi mi sento benone e non faccio aria darré.

Il magnetista annuì.

– Jeanette...

Una ragazza dall’incarnato pallido e un visino minuto che quasi scompariva sotto la cuffia parlò.

– È come se sento la forza dell’albero. La sua forza dentro di me, nella pancia. Mi fa bene, il sangue smette di scendermi da sotto.

Il magnetista si spostò appena, volgendosi verso un vecchio che a stento teneva dritta la schiena.

– Maurice, parla tu.

Il vecchio non aveva più denti in bocca, la sua parlata fu una sequela di sibili e dentali mancate.

– Dio benedica vossignoria e vi preservi inseculinculorumamen. La schiena non mi fa più male. Domani pioverà. Cacherò due volte. E mi verrà anche duro. La vacca di Antoine sgraverà.

– Bene, – disse il magnetista. – Molto bene.

Prosegui a interrogare i partecipanti uno per uno. Qualcuno, invece di citare i propri malanni, parlava di decisioni da prendere, dispute da dirimere, litigi.

– Ero in collera con i Renaud per la pulizia del bosco, ma ora capisco che possiamo farla noi e tenerci in cambio due terzi della legna.

– Devo vendere il porco a Meunier per la cifra che mi ha chiesto, come mi avevate suggerito.

– Mia moglie e Cortot sono amici d’infanzia, non mi devo preoccupare.

Solo quando tutti ebbero detto la loro, e dopo aver chiesto il loro permesso, il magnetista li risvegliò. Li congedò con una parola di conforto per tutti. Alcuni si incamminarono lungo il viale, evidentemente per tornare al villaggio di Buzancy. Altri entrarono invece nella villa, accolti dai domestici, come fossero pazienti di un ospedale.

Il magnetista si guardò attorno soddisfatto e solo allora notò i due nuovi arrivati. Un sorriso cordiale si allargò sulla sua faccia.

– Benvenuti, – disse andando loro incontro. – Benvenuto dottore. È un piacere rivedere un vecchio sodale.

Per un istante D’Amblanc si trovò in imbarazzo, dato che prima della rivoluzione avrebbe dovuto inchinarsi al marchese di Puységur, ma subito optò per stringere la mano al cittadino Chastenet.

– È un piacere ritrovare un maestro, – disse D’Amblanc. Indicò le persone vicine all’albero e il capannello che si scioglieva. – Il vostro metodo vegetale mi ha salvato da uno dei miei attacchi, qualche mese fa. Non lo avevo mai provato, ma mi sono ricordato dei vostri scritti.

Chastenet annuí soddisfatto.

– Io stesso l’ho riscoperto da poco. Per anni mi ero concentrato sulla terapia individuale, ma le sonnambulizzazioni collettive sono molto interessanti –. Gli brillavano gli occhi.

– Mentre curano il corpo del singolo, agiscono sulla salute del gruppo –. Lo sguardo scese su Jean. – È il ragazzo di cui mi parlavate nella vostra lettera?

– Precisamente, – rispose D’Amblanc.

Il ragazzino si inchinò.

– Ebbene, venite, – disse il padrone di casa. – Lasciate qui i bagagli, manderemo a prenderli dopo –. Prese D’Amblanc sottobraccio e lasciò che il ragazzino li seguisse dappresso.

– Caro dottore, sono felice di rivedervi. Spero che possiate fermarvi per un po’ qui da noi.

– Lo spero anch’io, – soggiunse D’Amblanc.

– Ditemi, quali notizie da Parigi? Come va la rivoluzione? – chiese Chastenet.

La domanda colse D’Amblanc di sorpresa.

– Non saprei, davvero.

Chastenet annuí, come a lasciare intendere che aveva capito senza bisogno di parole.

– Chissà che io non riesca ad appassionarvi alla mia. D’Amblanc rimase ancora più stupito.

– La vostra rivoluzione?

Chastenet sorrise di nuovo e indicò il parco all’intorno, fermando il gesto all’altezza del grande albero.

– La rivoluzione senza ghigliottina.

Estratto da

«IL PAPÀ DUCHESNE»

n. 355 e ultimo

Data presunta: 21 ventoso, anno II (11 marzo 1794)

La gran collera di papà Duchesne, contro i moderati che ci mettono del verde e del secco per opporsi all’esecuzione dei decreti rivoluzionari e per salvare gli aristocrassi e i cospiratori. I suoi buoni consigli ai veri repubblicani affinché mettano tutti la testa in un berretto per far rispettare la legge del maximum e quella che confisca i beni degli uomini sospetti.

Ah, cazzarola, quanto è dura da uccidere, l’aristocrazia. Quando sarebbe pronta per il colpo di grazia, quella fa la morta, e quando sembra spacciata, si rivolta e si rianima tutta d’un colpo per tirare il suo veleno con ancora più forza. Ogni giorno partorisce nuovi mostri per tormentare il popolo. Perché cazzo i patrioti si fermano sempre a metà strada? Tutto sarebbe finito il 10 agosto se i bastardi indormentatori non avessero bloccato il braccio vendicatore del popolo; l’orco Capeto e la sua razza abominevole avrebbero perso il gusto del pane, e con un solo colpo di rete si sarebbero levati da Parigi tutti i foglianti, tutti i realisti, tutti gli aristocratici; ma al contrario, i sanculotti si lasciarono imbambolare dai gianfotti doppiafaccia e il moderatismo l’ebbe vinta; con che risultati, a fottere? I brissotini han fatto la pioggia e il bel tempo; il vecchio Roland, coi soldi che la Convenzione gli aveva affidato per acquistare vettovaglie, ha impastrugnato la controrivoluzione; quasi tutti i giornalisti, venduti a questa cricca infame, hanno avvelenato l’opinione e i migliori cittadini sono finiti nel fango. Marat venne dipinto come un lupo mannaro, l’hanno fatto passare per una bestia feroce, e in parecchi dipartimenti ci si domandava quanti bambini mangiasse per pranzo e quante pinte di sangue bevesse ogni giorno: eppure, cazzo, non c’era in tutta la Repubblica un uomo più umano di lui.

La giornata del 31 maggio è servita da secondo atto alla tragedia del 10 agosto: ha salvato la Repubblica, ha portato al patibolo i principali capi della congiura, ma cazzarola, non li ha distrutti del tutto. Carra e Brissot sono resuscitati; le stesse infamie che svendevano in giro, vengono ripetute da altri leccaculo della loro razza.

I brissotini di nuova produzione, mentre spandono il veleno del moderatismo, osano condannare le misure rivoluzionarie che hanno salvato la libertà. Essi minano il governo sottobanco, al fine di prenderselo. Cosi, proprio quando i nostri bravi guerrieri bruciano dall’impazienza di sterminare gli schiavi dei despoti, ecco che gli si mettono i bastoni tra le ruote.

Bravi sanculotti, non bisogna gettare il manico dopo l’ascia. Coloro che predicano il moderatismo sono i vostri peggiori nemici. Non c’è più spazio per indietreggiare, cazzo: la rivoluzione deve compiersi. La Convenzione ha rilasciato un nuovo decreto sul maximum, che sterminerà gli accaparratori e riporterà l’abbondanza. La legge che confisca i beni degli uomini sospetti, e che ordina la loro deportazione, toglierà a tutti i nemici del popolo i mezzi per turbare la pace e purgherà la Repubblica da tutti i mostri che l’avvelenano. Bisogna che tutti i veri repubblicani continuino a stringersi intorno alla Convenzione che lavora a strappapiede alla felicità del popolo. Che i sanculotti si riuniscano dunque per liberarla da tutti i traditori che cospirano contro la libertà: il loro numero è ancora grande.

Non saprei ripeterlo più di così: la causa di tutti i disordini che ci agitano, viene dall’indulgenza che si è messa nel punire i traditori. Un solo passo indietro perderà la Repubblica. Giuriamo dunque, a fottere, la morte dei moderati, come quella dei realisti e degli aristocrassi. Unione, coraggio, costanza e tutti i nostri nemici chiuderanno il becco per sempre.

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