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«Contegno e calma», prescriveva un manifesto affisso al muro. «Le donne non escano di casa», auspicava un altro foglio pochi passi più in là.

Orphée d’Amblanc mostrò la carta civica ai volontari che gli sbarravano il passo. Ognuno di loro portava sul bavero un cartellino che lo identificava come addetto all’ordine pubblico. Le quarantotto sezioni di Parigi avevano messo a disposizione più di duecento uomini ciascuna, moschetto a tracolla e in tasca sedici cartucce. D’Amblanc, in quanto medico, aveva ottenuto la dispensa dal servizio, e ora si interrogava sulla necessità di uno spiegamento di forze tanto imponente. La città appariva tranquilla e i giornali elogiavano «l’austera dignità di un popolo sovrano nell’esercizio del suo potere». Tuttavia, nessuno poteva sapere cosa sarebbe successo, se invece di ottantamila uomini in armi ce ne fossero stati solo la metà. Guardandosi attorno, D’Amblanc era incline a pensare ché il morbo monarchico non sarebbe comunque dilagato. Il processo, le manovre sottobanco e i tentativi di fuga avevano spogliato il re di ogni sacralità. Luigi Capeto era un cittadino della Repubblica che aveva commesso una sequela di crimini e come tale andava giustiziato. «Non si può regnare impunemente»: la frase di Saint-Just era ormai un ritornello da osteria.

Lungo la strada, un’atmosfera di attesa e incredulità. Con le sezioni in assemblea permanente, i volontari in armi, le donne a casa, le botteghe serrate e migliaia di cittadini già assembrati sotto la ghigliottina, i semplici passanti erano rarità. Nei loro volti, D’Amblanc cercava di cogliere il sentimento che egli stesso avvertiva. Si era svegliato all’alba al suono di tamburi, campane e cannoni. Da allora, la sinfonia del Grande Evento non s’era mai interrotta, arricchita dal trotto della cavalleria, dal passo marziale delle truppe, dal rullare dei carri militari.

Guardò l’orologio da tasca. Per le dieci in punto doveva bussare al portone della signora Girard. La terapia magnetica non ammetteva dilazioni.

Mezz’ora più tardi, il boia di Parigi avrebbe raccolto la testa del cittadino Capeto.

D’Amblanc si domandò quanti altri, in un momento come quello, avrebbero rinunciato allo spettacolo, per dare la precedenza al proprio dovere.

Immaginò la carrozza verde del sindaco di Parigi, attorniata da cavalieri, sciabole e picche. Il Capeto a bordo, in preghiera, le mani giunte al centro del petto. Accanto a lui, l’amico prete, nato in Irlanda ma cresciuto a Tolosa, che lo aveva accompagnato durante il processo. Di fronte a loro, due gendarmi, intenti a mascherare il proprio stupore.

A quell’ora il convoglio doveva essere all’altezza di San Dionigi.

D’Amblanc ripose l’orologio e si affrettò, in direzione opposta rispetto al gran viale dove si stava scrivendo la storia di Francia.

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