4.

Lo strepito e le urla giungevano da un luogo non prossimo, ma i suoni erano alti e distinti, ancorché caotici. L’uomo chiamato Laplace passò il breve dormiveglia a chiedersi dove si trovasse e cosa fossero quelle grida. Fantasmi affollarono la mente, ma poi si fece chiara la consapevolezza di essere nel suo alloggio, a Bicêtre. Le grida erano l’espressione di qualche insensato.

Urla di rabbia, lamenti, cantilene appartenevano al paesaggio sonoro del manicomio come i canti degli uccelli appartengono ai giardini nella bella stagione, ma l’uomo che si faceva chiamare Laplace, ormai sveglio e seduto sul bordo della branda, si chiese se quei suoni potenti e inarticolati provenissero da un essere umano o, piuttosto, da un grosso animale.

L’eccitazione si era trasmessa ai cani dei sorveglianti e ad altri internati. Il frastuono prese a montare, ad avvicinarsi, ora si sovrapponevano più voci, intente a rivendicare, lamentare, minacciare, reprimere.

Le urla cessarono di colpo, mentre si lavava mani e faccia nel bacile. Ora l’unico rumore erano zoccoli lontani di cavalli, e passaggio di ruote sul selciato. Dopo meno di un minuto, il corridoio fu riempito da passi pesanti di più paia di gambe, e imprecazioni a denti stretti.

Aperto l’uscio, l’uomo si affacciò.

Un manipolo di sgherri trascinava un giovane.

Laplace aveva già visto quei tratti regolari e l’ossatura solida. Aveva notato altre volte quel viso, il naso armonioso, benché popolano, e il capo incorniciato da boccoli biondi. Il corpo robusto ne faceva una sorta d’incrocio fra un putto e un carrettiere.

Dunque erano suoi gli ominosi strilli uditi poco innanzi.

Si chiamava Malaprez, gli avevano detto. Con ogni probabilità, i suoi antenati erano usciti, fieri, giovani di razza e aspirazioni, dalle selve della Franconia, più di mille anni prima, ma Dio aveva voluto che il biondo dai lineamenti perfetti fosse un bruto, un essere non molto sopra l’animale.

Laplace non era ingenuo: la volontà di Dio doveva essersi manifestata non con un singolo atto d’imperio, traendo un bruto da un ventre di donna; piuttosto, per imperscrutabili scopi, aveva corrotto la linea di sangue che portava dagli antichi fino al biondo, attraverso incroci con esseri inferiori, e questo aveva generato la follia.

No, non era ingenuo, Laplace, e nemmeno tanto arrogante da credere di conoscere la volontà dell’Onnipotente. Eppure, il fatto che Malaprez si trovasse li, vicino a lui, sotto lo stesso tetto, coi suoi perfetti lineamenti e la terribile brutalità, doveva senza dubbio voler dire qualcosa.

Malaprez era a Bicêtre da un anno o poco più. Come per molti, si ignoravano i motivi originali del ricovero. Si sapeva, però, che durante il massacro di settembre un randello lo aveva colpito al cranio, forse più di una volta. Ne portava ancora i segni sulla cute, sfregi biancastri fra la chioma sottile.

Da quella notte, Malaprez aveva perso la favella e ogni barlume di senno. Si esprimeva a mugugni e, di tanto in tanto, conosceva sfoghi di rabbia animalesca.

Stretto nella camicia di forza, il giovane sfilò spinto dagli inservienti. Ora sembrava placato.

Il governatore Pussin era un illuso, certo, ma non uno sprovveduto. Vi era un non–si–sa–mai alla base del suo esperimento: una camicia dalle maniche chiuse e provviste di legacci, che si potevano fissare dietro la schiena. Una veste di contenzione, ben più morbida delle catene, idea di un tappezziere dei dintorni.

Gli occhi di Laplace e quelli del folle si incrociarono.

Un attimo dopo, l’alienato, con la sola forza del tronco, riuscì a divincolarsi e tra grida altissime, agghiaccianti, prese a scalciare alla cieca intorno a sé. La camicia di forza si allentò. Laplace arretrava un passo alla volta, senza perdere di vista la scena, che aveva il fascino vuoto dell’istante che può preludere l’inferno.

Accorsero altri inservienti. Fu con la forza del peso e del numero che lo vinsero. Alla camicia di forza, stretta a dovere, si aggiunse una catena ai piedi. Tenuto sdraiato da molte braccia, nella polvere, Malaprez si divincolava. La rabbia disperata stava scemando.

Estratto dal

DECRETO GENERALE SUGLI SPETTACOLI E I TEATRI

13 gennaio 1791

Ogni cittadino potrà aprire un teatro pubblico e farvi rappresentare opere di tutti i generi, facendo, prima dell’apertura del teatro stesso, una dichiarazione alla municipalità del luogo.

Art. 6. Gli impresari, o i membri dei diversi teatri, saranno, in ragione del loro stato, sotto il controllo della municipalità e riceveranno ordini solo dagli ufficiali comunali, che non potranno bloccare né impedire la rappresentazione delle opere, fatta salva la responsabilità degli autori e dei commedianti, e che nulla potranno ingiungere ai commedianti, se non quanto previsto dai regolamenti di polizia.

Art. 7. Agli spettacoli non sarà presente più di una guardia esterna. Ci saranno sempre uno o più ufficiali civili all’interno delle sale, e la guardia non vi entrerà, a meno che la sicurezza pubblica non sia compromessa, & su richiesta esplicita dell’ufficiale civile, il quale si conformerà alle leggi e ai regolamenti di polizia.

Estratto dal

DECRETO SULLA SORVEGLIANZA DEGLI SPETTACOLI

31 marzo 1793

La Convenzione nazionale incarica il suo comitato d’istruzione pubblica di farle continuamente rapporto sulla sorveglianza da esercitare sopra i teatri e gli altri spettacoli pubblici.

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