3.

Gli inservienti avevano l’abitudine di picchiare sulla porta con durezza, da sbirri. Talora sembrava che usassero il palmo, invece del pugno. Il suono somigliava a uno schiaffo, che attraverso il legno diveniva un tonfo risonante.

L’uomo nella stanza diede voce a un assenso e gli inservienti entrarono. Facce grossolane, due mezzi armadi biondicci, musi segnati dalla prossimità col grado zero dell’uomo e da nasi spropositati: uno rubizzo, simile a un’escrescenza maligna, l’altro una specie di sonda, la cui punta cadeva verso il basso, sulle labbra, come attratta dal centro della terra.

– Cittadino Laplace, il governatore Pussin vuole vedervi.

L’uomo dal naso floscio era contratto, come se si attendesse un diniego e fosse pronto a convincere, o costringere, il convittore a seguirlo.

Laplace invece si infilò il pastrano, con l’aria di chi si reca a un incontro fissato da tempo. Fuori, il sole invernale prendeva forza di giorno in giorno e la luce che rischiarava il cortile era sempre più accesa. L’ampio lastrico grigio, contornato da smilzi aceri, si apriva come una piazza d’armi al centro delle architetture massicce di Bicêtre.

Solo i pazzi più mansueti potevano passeggiare liberi a quell’ora del giorno. Un conciliabolo d’uomini d’età difforme ma vestiti alla stessa maniera: frac e culottes di tela grezza, calze al ginocchio, zoccoli e un berretto di lana. Alcuni sedevano per terra, altri su sedie e panche, quasi tutti ostentando compunzione, dignità, come immagini di antichi ritratti, Ateniesi e Romani di un’epoca nuova, moderni Ciceroni e Temistocli. Uno di essi, a forza di ripetizioni e frasi fatte, si produsse in un’esortazione astratta ad amare e servire la patria, l’idea di patria che potrebbe avere un bambino.

Laplace lo osservò da capo a piedi: era uno di quelli che non aveva ancora ribattezzato, e prima di entrare nelle stanze del governatore, decise che lo avrebbe chiamato Lafayette.

– Vi trovo bene, cittadino Laplace. Il vostro incarnato è roseo.

– Sì, cittadino Pussin, il mio umore è stabile, e non ne sono sorpreso. Sapevo che una degenza qui mi avrebbe fatto del bene.

Pussin scorse le carte che teneva sul tavolo.

– Nel nostro ultimo colloquio vi auguravate che la prossimità con chi è toccato dalla sorte in modo più duro del vostro vi potesse aiutare.

Laplace annuí.

– Sono certo che i benefici sarebbero anche maggiori, se potessi rendermi utile agli altri ospiti.

Pussin si accarezzò il mento con soddisfazione.

– Lasciate che vi racconti una storia, cittadino. Vent’anni fa, un uomo entrò a Bicétre ammalato di scrofola. Lo avevano giudicato incurabile, eppure guarí, anche grazie all’incarico di sorvegliante che gli venne affidato. Senza quell’incarico, non avrebbe conosciuto la sua futura moglie, sarebbe tornato nel Giura a fare il tintore di stoffe, forse si sarebbe ammalato di nuovo. Invece rimase qui, fino a occupare un posto di grande responsabilità.

– Quell’uomo siete voi, vero?

– Precisamente.

– Un tempo erano i sovrani a guarire la scrofola.

– Oggi sovrani siamo tutti. Per questo sono favorevole all’impiego degli alienati in svariate mansioni. Ciascuno secondo le proprie capacità. Gli uomini abituati alla fatica attingono e portano l’acqua dei pozzi, i contadini si dànno da fare nell’orto, altri nelle stalle, altri anche soltanto con una scopa in mano. Voi siete uomo di una certa levatura intellettuale, vi piace leggere. Potreste pensare a come mettere a frutto queste abilità per il bene comune. Potreste insegnare l’alfabeto a chi non lo conosce, oppure leggere storie edificanti a chi si sente schiacciato dalla sorte. Pensateci, cittadino Laplace. E quando ci avrete pensato, fatemi avere la vostra proposta. Vi auguro buona giornata.

Uscendo di nuovo nel cortile, Laplace si disse che Pussin era un illuso. Come troppi in quella temperie, era votato a una causa persa, perché falsa. La regina delle false idee. La convinzione assurda che gli uomini siano uguali, a dispetto di come appaiono, della loro natura, della purezza del sangue che li vivifica. Come dire che tutte le stelle in cielo sono equidistanti e brillano con la medesima intensità, oppure che tutti i colori sono uno soltanto.

Fino a pochissimi anni prima, gli alienati di Bicêtre, in catene, arrancavano incrostati di sporcizia nella penombra umida tra i muri, senza mai ricevere sulla pelle i baci e gli schiaffi del vento. Nel loro mondo, i raggi del sole erano pochi e irresoluti spifferi di barlume, grevi di polvere e insetti, inadatti a tagliare l’aria delle celle. Le cose stavano cambiando. Jean-Baptiste Pussin stava facendo la sua rivoluzione nella rivoluzione. Applicava idee inusitate, a loro modo coraggiose: trattare gli insensati come esseri umani, mirare a una loro «guarigione». Come se si potesse alterare la volontà di Dio onnipotente a forza di teorie. Aveva tolto i ferri da polsi e caviglie, e si era messo a parlare agli alienati.

Mentre attraversava il cortile, Laplace osservò i folli che vagavano senza meta, come pesci in una vasca putrida. Riconobbe Mirabeau, Condorcet, Barère. Ciò che si poteva ottenere da quegli esseri segnati era renderli docili, ed era un’operazione della Volontà. Quando la cura pareva riuscire, in sostanza non si trattava che di questo: folle o non folle, un uomo ha la mente fatta di cera. Se la volontà di un essere superiore, di un uomo nobile e forte si imprime con decisione in tale duttile materia, allora ecco apparire un risultato. Non una rivoluzione, ma la volontà dell’uno che piega la volontà dell’altro, e questo accadeva dalla notte dei tempi.

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