– L’idea più stravagante che possa nascere nella testa di un politico è quella di credere che sia sufficiente, per un popolo, entrare a mano armata nel territorio di un popolo straniero, per fargli adottare le sue leggi e la sua costituzione.
Robespierre aveva una voce corposa, buona per le geremiadi, ma quando perdeva il controllo e si metteva a gridare, spesso gli sfuggivano strilli più acuti, da castrato, che sembravano il sintomo di una doppia natura. Allora, consapevole di quel difetto, scrutava l’uditorio con occhio piccato, per soffocare sul nascere eventuali risate.
– Nessuno ama i missionari armati, il primo consiglio che danno la natura e la prudenza è quello di respingerli come nemici.
L’oratore indirizzò lo sguardo su Marat. Quest’ultimo non riusciva a tenere fermo il busto, e lo dondolava avanti e indietro come un pendolo fuori fase, accompagnando le oscillazioni con un tambureggiare di piedi sotto la panca.
– Qual è la decisione che una sana politica prescrive per consolidare la Repubblica nascente? Quella di imprimere nei cuori il disprezzo per la monarchia e di impressionare tutti i partigiani dei re.
Danton, vestito in abiti civili assai dimessi, annuiva con aria solenne, ma le sue labbra si muovevano, parlava tra sé, forse cercava le frasi giuste per intervenire nel dibattito.
Senza aspettare che l’Incorruttibile terminasse il suo discorso, Marat scattò in piedi sulla panca ed esplose nella sua tipica richiesta di vendetta.
– Migliaia di teste, migliaia di teste!
Come ogni pomeriggio, l’unico ad affrontare l’Amico del Popolo nelle sue escandescenze fu il serafico Brissot. Si avvicinò al furibondo, gli strinse una spalla e rispose che un tributo di sangue era pur necessario, ma si pronunciò in nome della moderazione: mille teste erano una stima esagerata, occorreva sempre mitigare le richieste più estreme affinché la barra della rivoluzione non sfuggisse dalle mani dei nocchieri e gli scogli nemici non mandassero in pezzi la nave dello stato.
Stultifera navis, pensò l’uomo che si faceva chiamare Laplace.
Provò a intervenire Danton, ma la voce non si udiva. Marat pestava i piedi e poiché si temeva per l’integrità della panca, gli inservienti si radunarono per convincerlo con le buone o con le cattive a rimettersi seduto, o a rimanere in piedi, ma perlamadonna, scendi da costassù!
L’eccitazione si propagò per il cortile. Gli oscillanti oscillavano sempre più; i biascicanti interrompevano il biascichio con frequenti schiamazzi; tra i melancolici, alcuni scoppiavano a piangere, altri si percuotevano il capo, mentre persino i catatonici sembravano sul punto di esplodere.
L’Incorruttibile cercò di sovrastare la cagnara strillando che si erano colà riuniti per decidere della morte del re! Quanti riuscivano a intendere le sue parole furono presi da un’esaltazione ancora maggiore. Alcuni si alzarono sulle sedie per intonare La Marsigliese, altri attaccarono la prima canzone che avevano sulle labbra. Molti battevano piedi e mani.
Dal suo punto di osservazione, l’uomo che si faceva chiamare Laplace pensò che la follia è materia di studio indispensabile per chi voglia conoscere ed esercitare il potere. Un’incognita che può entrare in gioco in qualsiasi momento, nelle vicende personali e in quelle collettive. A dispetto delle apparenze, dunque, egli si trovava in un luogo privilegiato, una vera accademia di scienza politica. Di più: si trovava in un microcosmo della nazione. Quod est inferius, est sicut quod est superius. Bicêtre era la Francia: infermi di mente impegnati in discorsi più grandi di loro. Ecco perché aveva attribuito a ciascuno il nome di un deputato della Convenzione. Non aveva dovuto faticare molto: luoghi di segregazione come quello erano più aperti al mondo di quanto non si credesse. Da fuori giungevano corpi, cibo, voci, idee, conflitti. La notizia della nascita di un comitato di salute pubblica, composto di nove deputati da rieleggere ogni mese, era giunta quel mattino, due soli giorni dopo il fatto. Soltanto i casi più gravi, le persone ormai dimentiche di sé, non conoscevano i nomi dei grand’uomini del momento. La maggioranza aveva contezza delle loro parole e degli atteggiamenti. Alcuni alienati li ammiravano e si immedesimavano a tal punto da credersi quei grand’uomini. Fra quelle mura, Robespierre, Hébert, Saint-Just, Marat erano eroi, modelli e simulacri.
Soprattutto Marat, pensò l’uomo chiamato Laplace.
Il grande Marat.
Che una figura simile potesse essere chiamata «grande» era sintomo della malattia grave che stagnava sul paese.
I lavori della Convenzione vennero sospesi d’imperio e i deputati più in vista rinchiusi prima del tempo nei loro alloggiamenti.
Marat – il sedicente Marat che più somigliava ai ritratti di Marat – seguitò a ripetere il ritornello sulle migliaia di teste, per quanto in tono più sommesso, a causa della veste di contenzione che gli stringeva il petto.
Robespierre – che di Robespierre non aveva l’aspetto, ma solo le frasi celebri mandate a memoria – si accomiatò gridando:
– Non facciamo leggi per un solo momento, ma per i secoli. Non per noi, ma per l’universo!
Del vero Brissot, il Brissot di Bicêtre non aveva nulla. Laplace lo aveva soprannominato così solo perché si opponeva a Marat con determinazione. Per il resto era un tipo insignificante, e infatti si fece trascinare via senza reagire, e così pure Danton, che però venne messo in catene, poiché il suo ventre alla Danton risultava incontenibile nelle camicie di forza.