Bicêtre era ospedale, prigione, ospizio e orfanotrofio. L’uomo che si faceva chiamare Laplace risiedeva nel padiglione dei folli, noto come San Prisco, e godeva dei privilegi riservati ai «pensionanti», cioè i convittori che pagavano una retta. Un medicastro di Parigi, previo adeguato emolumento, gli aveva scritto una domanda di ricovero per gravi attacchi di melancolia.
Aveva scelto di nascondersi in quel luogo perché teatro del massacro di settembre, quando i sanculotti avevano travolto i cancelli in cerca di aristocratici e preti. Nessuno lo avrebbe creduto tanto stupido da rinchiudersi dove, pochi mesi prima, la parodia di giustizia del popolino aveva fatto strage. Per un nemico della rivoluzione non vi era rifugio più sicuro di Bicêtre.
Aveva scelto di restare in quel luogo perché terribile, capace di metterlo di fronte ai propri limiti. Limiti che, nella temperie che attraversava la Francia, era imperativo superare. Il contatto, la prossimità con corpi sfatti e sozzi, volti rugosi e nasi deformi, menti ingenue o deviate, rispondeva all’esigenza di fortificarsi l’anima, esercitando la volontà nel superare paure e repulsioni ancestrali.
Era l’impresa più difficile che avesse mai affrontato. La paura che aveva conosciuto sul campo di battaglia era puramente fisica. In guerra si poteva morire trafitti da una picca, o cancellati da un cannone, o trascinati da un cavallo in fuga, legati alla staffa per un piede. Quale uomo, quale vero soldato temeva davvero tutto questo? L’idea dello scempio del corpo gli procurava una lontana tristezza, ma non lo affliggeva.
Il contatto con la follia e la deformità era ben altra cosa. Macchine umane, bestie umane, macchinari bestiali che sbavano e imprecano, e ti fissano, immobili, o percorsi da tremiti, il volto orribile a una spanna dal tuo, tanto da sentirne il fiato, la puzza della carne e delle vesti.
Grazie all’orrore, aveva cominciato a fare ciò che doveva, ciò che aveva stabilito fin dall’inizio: usare quel girone di dannati per addestrare la sua peculiare abilità. Abilità lasciata cadere anni prima, imprecisa perché non più addestrata, ma ritemprabile e potenzialmente decisiva. Su di essa contava, per dirigere verso un esito fortunato il disastro che la Francia subiva.
La stanza dove risiedeva era in un’ala vicina a quella dei casi più duri, quelli che mettono alla prova la pazienza e l’umore, rischiando di spingere un debole verso la follia.
Una branda in legno, con un pagliericcio pulito e buone coperte, una sedia e un tavolo con carta, penna e calamaio. Alcuni libri sopra una mensola, ricavata nella pietra del muro, e un baule di vestiti, aperto, all’impiedi.
Detestava starsene sdraiato a far niente. Aveva stilato un programma giornaliero di esercizi, preghiere, riflessioni.
Spesso ripensava al barone, ai viaggi e alle esperienze fatte insieme, prima del Grande Disordine e della Grande Parodia.
Ricordava gli albori della rivoluzione, quando il Capeto regnava in ostaggio, ridotto al fantoccio che in fondo era sempre stato.
Pensava a come il barone si era illuso sugli stati generali, per poi convincersi che la rivoluzione era la rovina del mondo. Pensava alla fuga a Coblenza e alle cannonate di Valmy. Al sangue di Valmy. Alla disfatta di Valmy.
Poi l’abbaglio finale: un complotto per far evadere il re di Francia. Mossa prevedibile, facile da intuire e da sventare.
Il barone non poteva capire: troppo legato a un’aristocrazia già appassita ben prima del Grande Disordine.
Per troppo tempo Laplace si era fatto trascinare dalle velleità, dalle false speranze negli esuli, dall’idea che «contro–rivoluzione» equivalesse a «restaurazione».
Il tentativo fallito di liberare Luigi gli aveva aperto gli occhi, consegnandogli una certezza che non avrebbe più abbandonato.
La controrivoluzione è a sua volta una rivoluzione, oppure non è nulla.