3.

I quattro giorni di galera passarono in fretta: non altrettanto le notti. Abituato a recitare ogni sera, per le prove o per il pubblico, Léo perse subito il sonno nel pantano dell’inazione. Al suo posto, sulla paglia fetida della cuccetta, trovò per compagne una sfilza di domande, sempre le stesse. Quando sarebbe tornato a recitare? E quanto avrebbe avuto da risentirne la sua carriera di attore? Parlava sul serio, quel Nogaret? La sua segnalazione avrebbe davvero avuto effetto?

O era tutta una finta per impressionarlo?

Léo pensò alla scazzottata. Si consolò pensando che almeno non aveva ucciso nessuno. Pensò alla terribile notte di sette anni prima, quando aveva detto addio a Bologna in fretta e furia, con la benedizione di Mingozzi.

Oddio, benedizione... Più simile a un chélz int’alcul.

Mingozzi. La rottura era stata dolorosa, segnata dalla delusione del vecchio padre per com’era «venuto su» il figlio. Giunto a Parigi, Léo aveva trascorso un anno senza scrivergli, finché una sera, parlando con saltimbanchi che erano passati per Bologna, era venuto a sapere che era morto. Dopo quel giorno, non aveva mai più pianto, se si escludeva la lacrima versata per la morte del maestro Goldoni.

Léo, ovvero Leonida, aveva maturato l’amore per il teatro assistendo sin da fanciullo alle commedie che il marchese Albergati metteva in scena nella sua villa in campagna. Commedie sovente scritte dal medesimo marchese – che s’inorgogliva nel rammentarlo a tutti – e altrettanto sovente regalate dal maestro Goldoni, che le scriveva espressamente per l’amico.

Francesco Albergati, al pari di non pochi altri nobili d’Europa e al contrario dei molti culastracci costretti a recitare per campare, poteva permettersi di essere un amateur,; nondimeno, era uomo di teatro a tutto tondo, o almeno in altorilievo: non pago di scrivere e allestire, faceva pure l’attore.

Nella maggior parte dei casi, le messe in scena erano riservate agli amici aristocratici (membri delle famiglie senatorie bolognesi e ospiti di rango), ma il marchese era imbevuto d’idee nuove, era in corrispondenza coi più illuminati spiriti del suo tempo, incluso – si diceva – l’immenso Voltaire. Perciò, in talune occasioni, le recite avevano luogo sotto la volta del cielo, aperte a chiunque vivesse o lavorasse o passasse nei dintorni della villa.

In una di quelle sere, Leonida aveva visto mettere in scena Il campiello di Goldoni.

A quell’epoca, il maestro viveva a Versailles e insegnava italiano alle figlie di Luigi XV. Scriveva al marchese raccontando i fasti e le stranezze della corte di Francia, e quei resoconti trapelavano, gocciolavano in basso, arrivavano fino alla servitù e uscivano dai muri della villa, fabulandosi vieppiù. In quel di Zola, tre leghe a ponente di Bologna, Goldoni era una leggenda popolare.

A Leonida avevano raccontato che, durante la famosa ultima visita, il maestro lo aveva addirittura fatto sedere sulle ginocchia, el fantolin, e lo aveva fatto ridere mostrandogli facce buffe, strabuzzando gli occhi e gonfiando le gote. Léo aveva due anni.

Ne aveva otto quella fatidica sera, quando, terminata la commedia, si era girato verso Mingozzi e gli aveva detto: «Me, da grand, a voi fèr l’atåur!»

Mingozzi aveva scosso il capo e gli aveva risposto: «Il marchese fa l’attore perché ha i baiocchi. Te, se fai l’attore, vai a far la fame».

Giovanfranco Mingozzi aveva un fisico asciutto e muscoloso, occhi di bragia e barba nera. Nel 1760 aveva cinquantadue anni, e da ventidue lavorava per gli Albergati. In gioventù era stato soldato e tante altre cose di cui non parlava mai. Non s’era mai sposato, o almeno un suo matrimonio non risultava a nessuno, ma dicevano avesse seminato figli tra Bologna e le Romagne, oramai tutti grandi.

Pure attorniato da molte persone, il vecchio reduce si sentiva solo.

Quando una giovine serva di Villa Albergati era morta sgravando un figlio di pater numquam, Mingozzi s’era commosso per la creaturina e aveva impedito che la portassero alla ruota degli esposti. Il bimbo sarebbe rimasto li: lo avrebbero cresciuto come il figlio di tutti... ma di Mingozzi un poco di più. L’avevano chiamato Leonida, nessuno ricordava il perché. Era un nome come un altro. A Mingozzi avevano detto: «Dàgli il tuo cognome», ma lui no, lui riteneva giusto dargli quello della povera mamma, ché di lei serbasse almeno qualcosa.

La miserella si chiamava Natalina Modonesi. Di lei non si sapeva molto, anche perché era arrivata da poco, già incinta. Aveva fatto giusto in tempo ad abituarsi, a ricordare i nomi di tutte le altre, che il parto l’aveva stroncata.

Fuggito da Bologna e dall’Italia per giungere a Parigi sulle orme di Goldoni, Leonida si era cambiato nome, voltandolo in francese, e padre, creandosene uno capocomico. Meglio figlio d’arte che figlio di nessuno.

Era il 1786.

Un minuto dopo l’altro, notte dopo notte, il gocciolare dei dubbi aprí a Léo un tale buco nel cervello, che appena il cancello della prigione gli si schiuse davanti, si buttò a capofitto per le strade di Parigi, dritto al teatro più vicino, senza nemmeno passare da casa per cambiarsi d’abito. Impresari e capocomici, d’altronde, lo conoscevano bene, e il rispetto che gli portavano non dipendeva certo dalle sue camicie pulite.

– Mi spiace, Léo, la compagnia è al completo.

– Niente da fare, Bologna. Prova a sentire al Pantano, mi pare cercassero.

– No, Modonnet, un posto per te non ce l'abbiamo.

L’ultimo rifiuto parve a Léo meno netto degli altri. Intravide uno spiraglio e ci si infilò di slancio.

– Ti ringrazio, Jean, – rispose. – So che vorresti darmi una parte di rilievo, è gentile da parte tua non propormi un ruolo di secondo piano, ma in questo momento...

– Le parti sono tutte assegnate, Modonnet. Non saprei cosa farti fare.

Léo non si perse d’animo, aveva bisogno di recitare, un modo doveva esserci.

– Senti, Jean: non è che potrei lo stesso fare le prove con voi? Aiutare gli attori più giovani con le battute difficili, fare il suggeritore, sostituire alla bisogna chi dovesse mancare, prima o poi capita sempre, che manchi qualcuno, e io invece potrei imparare tutte le parti e diventare un specie di factotum, eh? Che ne pensi? Me a fâg ad tòtt! Largo al fâgtotum! E in cambio ti chiederei solo il vitto e i quattro spiccioli che bastano a placare quella sanguisuga del mio padrone di casa.

– No, Modonnet, – fu la risposta, – non si può fare.

E mentre Léo annaspava per trovare la battuta giusta, di fronte a un rifiuto all’improvviso tanto duro, l’uomo che lo aveva pronunciato frugò in una tasca della giacca e gli sventolò un foglio davanti al naso.

Portava l’intestazione del comitato di istruzione pubblica. Era indirizzato a tutte le compagnie di attori e ai proprietari di teatri della capitale. Era un elenco di nomi, preceduto da una frase breve e definitiva:

Visto il ripetersi sempre più frequente di disordini e intemperanze nei luoghi dati agli spettacoli, si consiglia di prendere provvedimenti – sul palco e in platea – nei confronti dei seguenti cittadini, che tali tumulti hanno innescato e fomentato nel corso degli ultimi mesi.

Léo non dovette scorrere molti nomi prima di trovare il proprio: era il terzo della lista, dopo quelli di Fourmillon e Jeannard, due guitti notoriamente controrivoluzionari.

– Hai la rogna, Modonnet, – fu l’amara sintesi. – Un consiglio del genere è peggio di una sentenza: questi cominciano a sospendere le rappresentazioni, a chiudere i teatri, e nessuno vuole correre rischi e attirare controlli.

– Ma se ti dico che starei dietro le quinte, che salirei sul palco solo per le prove, che...

L’uomo scrollò la testa deciso, ripiegò il foglio, lo infilò nella giacca e si congedò con un «Buona fortuna» tanto falso che non puzzava nemmeno di pietà.

Il giorno ormai volgeva al termine, la luce del sole stampava riflessi sui muri dei palazzi. Léo decise di rientrare a casa, mangiare un boccone, scoprire quali nuove domande avrebbe trovato nel letto al posto del sonno.

Lungo la strada, in mezzo alla folla, osservava uomini e donne impegnati nei lavori più diversi e si immaginava a faticare al posto loro per guadagnarsi il pane. Non sapeva fare altro che recitare, e in fondo cosa ci si poteva aspettare da un bimbo che Carlo Goldoni aveva tenuto sulle ginocchia?

Spiò da una finestra aperta gli operai di una tipografia. Sudati, le mani sporche di inchiostro, si affannavano sulle lastre, mentre un tizio magro urlava loro di fare in fretta, più in fretta. Come facevano a sopportarlo in silenzio?

Una ragazza giovane, dagli occhi intensi, vendeva fiori malmessi all’angolo di una piazza. Léo ne studiò i lineamenti dolci, le curve aggraziate del corpo. Anche la voce era ben impostata. Una così, con un buon maestro di recitazione, poteva diventare di quelle attrici che fanno scegliere il pubblico tra due pièces di uguale valore. E invece sprecava le sue doti naturali per vendere una merce futile e ormai appassita. Sarebbe finito anche lui così? A irretire coi gesti e le parole un pugno di rozzi clienti, per convincerli a comprare una libbra di cetrioli?

La città si faceva sempre più scura, i suoi pensieri anche. I passi lo condussero alla porta di casa, sulle scale, fino al ripiano che dava nel sottotetto. E li, sul ripiano, in una mucchia informe e colorata, c’erano i suoi vestiti, i libri, una lampada, due scodelle. Addossati alla parete per lasciare libero il passaggio, già coperti di calcinacci e polvere di muro.

Léo raccolse un opuscolo sottile e spazzò la prima pagina con l’avambraccio.

IL VENTAGLIO

di Carlo Goldoni

Tratta di tasca una grossa chiave, armeggiò con la serratura e nell’unica stanza del suo appartamento si trovò di fronte un uomo a petto nudo.

– E voi chi siete? – dissero le due bocche nello stesso momento.

L’attimo dopo, entrambi pretendevano di essere il legittimo inquilino di quel buco.

L’uomo a petto nudo si fece largo verso la tromba delle scale e ci urlò dentro:

– Mastro Picard, venite un po’ su, c’è qui quello di prima che non se ne vuole andare.

Giù dabbasso si senti un rumore di serrature, poi la testa bovina di Picard si affacciò dal piano di sotto, puntò il dito verso l’alto e prima ancora di cominciare a salire, prese a gridare:

– Tu, saccodimerda! Sono quattro giorni che ti cerco, quattro giorni, mi devi due mesi d’arretrato e io nel frattempo son costretto a comprare la carne a credito, a supplicare il macellaio per colpa tua. Piglia i tuoi quattro stracci e smamma veloce. Sciò, pussa via, non la voglio più vedere, quella tua faccia di culo.

Quando fu a destinazione, l’energumeno si avventò sulla roba di Léo, i vestiti, i libri, le lampade, e senza dire né aba, prese a precipitarli giù per il vano scale, raccogliendoli a bracciate come se fossero sterpi e foglie secche.

Léo avrebbe voluto con piacere saltargli addosso, fargli ingoiare la boria insieme ai denti, ma si disse che un’altra rissa, altra prigione, altre notti insonni, non erano davvero quel che ci voleva per sbrogliare il gomitolo della sua esistenza.

Si limitò a dire che aveva capito, che non c’era bisogno di quella sceneggiata, che buchi di culo come quello ce n’erano migliaia, a Parigi, anche più economici, e che pertanto se ne sarebbe andato subito volentieri e pure chiedendo i danni per quegli effetti personali che si fossero rovinati nella caduta.

Quindi scese al pianoterra, stese un lenzuolo sul pavimento sporco, ci raccolse sopra tutti i suoi averi, legò gli angoli a coppia e, con un nodo in una mano e uno nell’altra, si appoggiò il fagotto alla schiena e uscí per strada, dove un’altra notte insonne lo aspettava indifferente, additandogli come giaciglio la nuda terra e come tetto la volta di un ponte a cavallo della Senna.

Estratto dalla

LETTERA DEI DEPUTATI

JEANBON SAINT-ANDRÉ ED ÉLIE LACOSTE,

INVIATI IN MISSIONE NELLA DORDOGNA

PER CONTO DELLA CONVENZIONE NAZIONALE,

AL DEPUTATO BARÈRE

I disordini della Vandea e dei dipartimenti vicini sono inquietanti, senza dubbio, ma sono davvero pericolosi solo perché il santo entusiasmo per la libertà è soffocato nei cuori. Ovunque ci si è stancati della rivoluzione. I ricchi la detestano, i poveri non hanno il pane e li si persuade che devono prendersela con noi.

I cosiddetti moderati, che in qualche modo facevano causa comune con i patrioti e desideravano almeno una qualsivoglia rivoluzione, oggi non ne vogliono sapere, aspirano a farla regredire, e anzi, diciamocelo: vogliono la controrivoluzione e sono legati col cuore, l’intenzione, la volontà, e presto anche con le azioni, agli aristocratici.

II povero non ha pane e il grano non manca, ma rimane chiuso nei magazzini. Bisogna far vivere il povero con un atto d’imperio, se vogliamo che egli ci aiuti a fare la rivoluzione.

Nei casi straordinari, non bisogna considerare altra legge che quella suprema della salute pubblica.

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