I.

Era una di quelle sere in cui le facce del pubblico in prima fila ti si stampano in testa. Accade quando stanno li e ti fissano, e non dànno voce o gesto alle emozioni.

Léo guardò l’attore che lo affiancava sulla scena, un povero cane, dopo avergli porto la battuta in modo magistrale. Talento sprecato, pensò Léo: il collega cane aveva bruciato brutalmente i tempi comici. Poi è ovvio che la prima fila guarda attonita. E in seconda, terza, qualcuno già sbadiglia.

Era una compagnia di terz’ordine. La sua presenza li, tra loro, sul palco, turbava gli equilibri degli attori mediocri. La sua bravura non alzava il livello generale della rappresentazione: era semplicemente un pesce fuor d’acqua. Per contrasto, la sua maggior abilità tecnica rendeva tutto più farraginoso. L’unica nota positiva erano le attrici: sembravano disponibili, erano molto rispettose...

Perso dietro il filo dei pensieri, Léo sbagliò i tempi a sua volta. Provò a redimersi forzando le battute successive, ma il pubblico sembrò cogliere la disarmonia. Magari frequentava quel teatro da anni, anzi di certo era così. Magari la gente in prima fila era abituata allo stile e alla maniera dell’attore rimpiazzato da Léo. Di meglio non aveva troyato: fare il sostituto. La voce si era sparsa in fretta tra gli impresari: Modonnet il piantagrane. Modonnet il portaguai, Modonnet l’esibizionista. Eccolo li, a sprecare il proprio talento in mezzo a quel branco di cani.

Léo colse con la coda dell’occhio un tizio, in seconda fila, che sporgeva il capo tra due teste, e lo scuoteva con intenzione. Léo pronunciò la battuta successiva, pensando che le commedie distese erano noiose, specie quelle in voga in Francia in quel momento: storie edificanti di gente insignificante. La testa in seconda fila oscillò di nuovo ostentando disapprovazione. Léo uscí di scena e, appena dietro la quinta, continuò a osservare il comportamento delle prime file. Ora toccava alle attrici, con vestiti aderenti e scollature generose. I sorrisi di compiacimento si sprecavano.

La scena ebbe termine e Léo rientrò. Era il momento di una lunga tirata, e lui si sentiva in grado di convincere chiunque. Incominciò: modulazione di voce, gesti ampi ma non troppo enfatici, movimenti calibrati... e testa in seconda fila che continuava a fare no, accompagnata da gesti con la mano e smorfie con la bocca. Forse erano amici dell’attore che Léo sostituiva, ma che colpa ne aveva lui se era caduto malato? Gente in malafede...

Terminò il monologo e in quel momento la testa in seconda fila si alzò e un verso risuonò nella platea.

– Bau! Bau!

Léo si bloccò e cercò gli occhi del provocatore. Lo guardavano con un’espressione di scherno.

Decise che poteva bastare. A passi lunghi scese in platea.

Il tizio aveva cambiato faccia. Si era indurita. Intanto gli altri attori facevano capolino da dietro le quinte e molti spettatori erano in piedi. Léo pensò a una battuta adeguata, ma l’unica cosa che gli sovvenne fu una replica all’altezza della provocazione. Riprodusse anche lui un verso da cane. Ringhiò.

Poi sfoggiò il miglior sorriso e avanzò verso l’avversario a braccia aperte. Giunto a distanza utile, sferrò una testata che colpì lo spettatore ma non ebbe la forza di abbatterlo.

Lui e i suoi amici reagirono e Léo fini al centro di un parapiglia. Menava schiaffi, calci e pugni alla maniera che aveva appreso da ragazzino.

Mentre lottava, quasi alla cieca, benedisse di aver avuto, pur nella sventura d’essere orfano, un padre putativo come Giovanfranco Mingozzi, guardiano delle tenute del marchese e factotum. Mingozzi, cresciuto in una città ostile e violenta, dalle strade malsicure, dove i maestri d’arme che insegnavano scherma, lotta e trovar di braccia facevano fortuna. Mingozzi gli aveva insegnato a difendersi... e a offendere, cosa che aveva deciso la sua sorte. Addio, Bologna; eccomi, Parigi.

Al tempo stesso, mentre mulinava braccia in ogni direzione, Léo si maledisse. La faccenda buttava male, molto male. Fu colpito da un cazzotto in pieno volto: almeno uno doveva arrivargli, e quell’uno era stato poderoso. Una delle lezioni di vita di suo padre era stata: «Se fai a pacche serie, giovine, una botta passa sempre la guardia».

Fini a sedere per terra. Con l’agilità di un saltimbanco fece una capriola all’indietro e si rimise in piedi, in tempo per sferrare un calcio ai genitali all’avversario di turno. Si accorse che gli sanguinava il naso e imprecò.

Si udì un colpo di pistola, e voci concitate sovrastarono lo strepito. La rissa si placò.

Moschetti e coccarde. Gattabuia per tutti, per me specialmente, pensò Léo.

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