I.

L’interno era tra i più miseri che Orphée d’Amblanc avesse mai frequentato. E dire che, in molti anni di mestiere, aveva veduto abitazioni di ogni tipo, da quelle dei ricchi commercianti alle magioni dei nobili, ai quartieri della gente che campava a forza di braccia e polmoni.

Il paziente era uno di quegli uomini. Seduto sull’alto letto di legno, che con un baule sfiancato e due sedie male impagliate costituiva tutto l’arredo, l’uomo appariva vecchio e stanco, nonostante fosse più giovane di D’Amblanc. La complessione era buona, solida; ma le spalle erano piegate in avanti, curve, come a chiudere il petto, e la pelle del viso era un complesso reticolo di rughe, che ai lati della bocca e sotto gli occhi si trasformavano in solchi profondi.

Beautour, un manovale, era piagato da un male non frequente, solitamente diffuso tra la gente d’intelletto. Un male che negli ultimi anni, secondo l’esperienza di D’Amblanc, era divenuto meno raro e si era diffuso anche tra il popolino. Qualcuno ne aveva imputato la ragione alla moda della lettura. Sottoporre menti non preparate alla tensione intellettuale, alla lettura di storie che procuravano eccitazione, alle fantasie notturne provocate dai romanzi: tutto ciò poteva ben indurre febbri e disturbi.

D’Amblanc non credeva alle teorie che vedevano nella diffusione della lettura l’origine d’ogni male, né in senso medico né, ovviamente, politico. In ogni caso, Beautour sapeva a malapena firmare col proprio nome, e all’interno della sua casa l’unica cosa che si potesse leggere era un lunario del 1788 appeso sulla testiera del letto. Un sole con occhi e bocca mandava i suoi raggi ma non illuminava né riscaldava.

Beautour non poteva dormire. Soffriva d’insonnia, e sottoponeva il suo corpo a sforzi improbi per nutrire sé stesso, la moglie e svariati marmocchi. Il giorno precedente era crollato a terra, gli erano ceduti il fiato e le gambe. Per fortuna non si trovava in alto su un’impalcatura. Cosi andava ripetendo la moglie, una donna minuta, le guance rosse, il volto incorniciato da una cuffia lacera, troppo grande. I marmocchi stavano radunati su un lato della stanza, dalla parte opposta all’unica finestra, oscuro pertugio da cui sembrava non filtrare luce alcuna. La moglie era in piedi, e Beautour stava seduto sul letto, per chissà quale motivo con il cappello in testa. Mandava avanti e indietro le gambe in un monotono movimento, mentre, sovrastato dalla voce concitata della donna, provava a spiegare quanto era accaduto. A un cenno di D’Amblanc, la donna tacque e la voce di Beautour risuonò tranquilla, appena spenta, con una cantilena regionale che la rendeva infantile.

– Già mi aveva fatto bene, dottore, alla prima visita, qualche mese fa. Ma poi, con licenza parlando, è tornata fuori la malattia che non dormo, perché dicono che è una malattia, giusto, cittadino? Insomma, eccomi qui che sono sempre più magro.

D’Amblanc notò che i panni dell’uomo, più che vestirlo, lo infagottavano. L’uso li aveva si deformati, allungati, allargati, strappati, ma sotto i tessuti dozzinali un corpo si consumava.

– Non preoccupatevi, cittadino Beautour. Troverete sollievo. Avete provato i decotti che vi avevo suggerito?

La moglie intervenne.

– Cittadino D’Amblanc, non possediamo denaro per pagare le medicine.

Il dottore guardò la donna. A dispetto delle condizioni in cui versava e della vita che le era toccata in sorte, sembrava un’intelligenza vivace ed era in buona salute.

– Dovreste osservare bene quel che faccio. Io potrei insegnarvi a trattare i disturbi di vostro marito, ma occorre pazienza e convinzione.

– Pazienza e convinzione ne abbiamo, cittadino. Denaro per le medicine: quello non si ha.

D’Amblanc trasse un lungo respiro e si avvicinò al paziente. Fece cenno alla moglie dell’uomo di aprire bene gli occhi.

Incominciò il trattamento. L’uomo, che era un soggetto reattivo, cadde sonnambulizzato assai presto.

D’Amblanc uscí alla luce della domenica mattina, dirigendosi verso casa. La donna aveva estratto una smunta, smagrita gallina da sotto il letto e aveva insistito per pagare con quella. Tanto non faceva più uova, aveva detto. D’Amblanc aveva dovuto accettare e ora camminava tenendo in una mano le zampe dell’animale, il corpo che pendeva e oscillava come un impiccato.

Ancora una volta, considerò come le capacità e le abilità di un uomo sembrassero amplificarsi, allorché i percorsi del suo fluido magnetico venivano sbloccati. C’era la possibilità, a ben vedere, che ogni uomo richiudesse in sé capacità ancora insondate, che non dipendevano da ceto, classe o educazione.

La gallina, timida e smorta, provò a frullare le ali. D’Amblanc la guardava, ogni tanto, e gli occhi incontravano quelli dell’animale, vitrei, attoniti. La gallina non perdeva l’aria di trasognata sorpresa tipica della sua specie: covava, si nutriva, viveva e moriva così, animale gregario quasi quanto l’uomo.

D’Amblanc ricordò di aver conosciuto, oltreoceano, un fante di linea americano che era in grado di addormentare le galline compiendo davanti ai loro occhi delle circonvoluzioni con il dito indice. Oppure teneva la gallina al suolo, di pancia, così che non potesse girare il capo, e di fronte al becco tracciava sulla polvere una linea diritta. Quel gesto invadeva tutta l’attenzione del volatile, che si riduceva in uno stato catatonico. D’Amblanc sorrise. Forse era possibile insegnare a una gallina a volare. Oppure a credersi un leone.

Puységur avrebbe sostenuto che sì, bastava volerlo e farlo a fin di bene.

Mesmer avrebbe aggiunto la condizione ulteriore: che il magnetizzando riconoscesse l’autorità del magnetizzatore.

Insegnare a un leone a credersi gallina, quello sarebbe stato senz’altro più difficile.

«Oggi avete visto un nobile magnetizzare einen Bauem, un contadino. Ma avete mai visto un contadino fare lo stesso a un nobile?»

La domanda del taumaturgo risaliva a un giorno del 1784, impresso nella memoria di D’Amblanc con il nitore di un’acquafòrte. Poco tempo prima, era giunto a Parigi un grande ammiratore di Mesmer.

Armand-Marie-Jacques de Chastenet, marchese di Puységur.

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