2.

– Posso magnetizzarvi, signor Race?

– Oh, be’, sissignore, – risponde l’altro con un accento del Nord. – Fate pure, son qua per vossia.

Un contadino biondiccio e inquartato, lineamenti anonimi, abiti anonimi, se ne sta con la schiena dritta al centro della sala.

Sopra di lui, sfavilla un lampadario in cristallo di Boemia. Tutt’intorno, un salotto ammobiliato con gusto, cuore di una dimora ricca, nel cuore di Parigi.

Puységur pone una mano sopra la sua testa, a una spanna dai capelli.

– Chiudete gli occhi, – ordina, e il silenzio nella stanza si fa completo.

Cinquanta bocche si tappano, cinquanta paia d’orecchie ascoltano curiose, sotto un arazzo enorme che rappresenta le fatiche di Ercole.

Dalla sua sedia in prima fila, Orphée d’Amblanc studia il volto e i gesti del magnetista, il marchese di Puységur, colonnello d’artiglieria presso il reggimento di Strasburgo.

Il contadino si chiama Victor Race, viene da Buzancy, lavora da una vita nei possedimenti del marchese.

Le cinquanta teste appartengono ai tesserati della Società dell’armonia universale.

C’è il generale Lafayette, ci sono i giornalisti Brissot e Carra, c’è l’avvocato Bergasse, il banchiere Kornmann, e naturalmente c’è Franz Anton Mesmer, ansioso di vedere all’opera il famigerato sonnambulismo magnetico, lo strano fenomeno generato in provincia dalle sue teorie mediche.

Sulla pendola accanto al camino, la lancetta più lunga fa quattro giri completi.

– Come vi sentite, signor Race? – domanda il marchese.

– Non bene come di consueto, – risponde il villico. Il suo accento piccardo è evaporato insieme all’imbarazzo.

– Per quale motivo?

– Perché voi mi mettete in mostra di fronte a tante persone.

D’Amblanc vede Brissot piegarsi in avanti sulla sedia e mutare una risata in colpo di tosse. La signora Goncourt, una delle quattro dame presenti, nasconde la bocca dietro il ventaglio di pizzo.

– Cosa vi infastidisce di questi signori? Sono tutti buoni amici.

– Due di loro sono molto increduli su quel che facciamo e ciò disturba il mio sonno magnetico. È come se un filosofo naturale si sforza di fare i suoi sperimenti mentre uno gli spacca gli alambicchi e versa in terra le pozioni.

Il marchese ordina a Victor Race di camminare nella direzione dei due scettici e di indicarli con la mano.

Il contadino attraversa la stanza con gli occhi chiusi e il passo leggero. Si ferma di fronte a Kornmann, lo addita, indietreggia, pare annusare l’aria, infine si dirige sicuro verso Mesmer.

Il tedesco resta impassibile. Puységur non è da meno: incassa il colpo senza muovere un sopracciglio.

– Molto bene, – annuncia. – Ora il signor Race farà una diagnosi completa delle malattie che affliggono il signor Kornmann, da quelle più recenti ed episodiche a quelle croniche di più lunga durata. Ve la sentite, signor Race? E voi, signor Kornmann, ci direte se l’elenco è corretto.

Di nuovo il contadino cammina con passo da ballerina sul grande tappeto persiano. Di nuovo si piazza di fronte al banchiere, allunga le mani e raccoglie le sue.

– Ieri ha fatto una brutta colica, – dichiara. – Ha dormito male. Sento che il suo stomaco, in questo periodo, ha un rifiuto per l’aglio.

Kornmann abbassa gli occhi, si fissa le scarpe, quasi volesse impedire al villico di leggergli in faccia i segni di altre malattie.

Ma il villico ha le palpebre abbassate, il respiro lento di chi dorme e parla come se raccontasse una visione.

– Soffre spesso di un mal di schiena, all’altezza della vita, gli farebbero bene degli impacchi di timo, mentre per il gonfiore ai...

– Va bene, va bene, grazie, – si affretta a dire il banchiere sfilando le mani da quelle di Race. – È tutto giusto, marchese. Davvero sorprendente. Questo individuo possiede una dote straordinaria.

L’ammissione scatena una tempesta di commenti, cinquanta teste si girano l’una verso l’altra, cinquanta bocche sussurrano meraviglia.

Puységur intreccia le mani dietro la schiena e fissa la platea, in attesa che tutti prestino attenzione.

– Non è l’individuo a essere straordinario, – scandisce con un dito alzato. – Chiunque può essere messo in questo stato da chiunque lo voglia, se costui si attiene ad alcuni semplici accorgimenti. L’importante è volere. Credere e volere.

Il brusio e lo stupore tornano a riempire la sala. Gli occhi si volgono verso Franz Anton Mesmer, che però è l’unico a non mostrarsi sorpreso. Il marchese ha appena negato ciò che il tedesco va dicendo da sempre, cioè che alcuni individui hanno doti terapeutiche particolari, dovute a una maggiore concentrazione di fluido magnetico, e che tale concentrazione si può ottenere e dirigere solo dopo un lungo percorso di apprendistato. Se basta solo crederci e volerlo, allora la dottrina del magnetismo animale non ha più alcun segreto.

Mentre le voci scemano, Puységur si avvicina a Race, gli appoggia due dita sulle palpebre.

– Posso svegliarvi, ora?

– Se lo desiderate, per me è sufficiente.

– Lo desidero, – esclama il marchese.

L’uomo apre gli occhi, pare stordito.

– Bentornato, signor Race. Potete ripetermi le malattie che avete diagnosticato al signor Kornmann?

Il banchiere agita le mani davanti a sé, come per domandare di lasciar perdere.

– Me non mi sovvengo per nulla, sior marchese. Ho dormito sodo, voi lo sapete.

Il padrone di casa si volta verso la platea.

– Qualcuno vuole prendere il posto del signor Race? Ho bisogno di un soggetto che non goda di piena salute. Infatti, come ci insegna il nostro maestro, la malattia dipende da uno squilibrio magnetico e solo chi è vittima di tale squilibrio cade sonnambulo non appena riceve la dose di fluido che gli manca.

Un ventaglio chiuso si alza dietro due file di teste, che di scatto si girano e ammirano alzarsi Madama Goncourt: sguardi pieni d’interesse, non solo per il suo gesto spavaldo.

La Società dell’armonia ha conosciuto molte disarmonie per via delle grazie di questa signora.

Puységur ripete il suo scarno rituale. D’Amblanc nota che la sua pratica è molto diversa da quella di Mesmer: niente acqua, catini, sbarre di ferro, corde, crisi convulsive, catene di mani. Tutto si svolge con gesti semplici e gentili.

La signora ha gli occhi chiusi, la testa inclinata su una spalla. Dice che il suo mal di capo è svanito «come d’incanto». Dice che altre quattro sedute di sonnambulismo la libereranno per sempre da quel fastidio.

Si aggira per la stanza con il suo abito all’inglese. Elenca le malattie di Carra e del generale Lafayette. Prescrive rimedi, indica tempi di guarigione.

Quindi si ferma di fronte a D’Amblanc e con gesti lenti sfila i guanti di seta, gli porge le mani affusolate, i palmi rivolti all’insù, e aspetta che egli ci appoggi i suoi.

Molti a Parigi sostengono che le terapie magnetiche non abbiano altro scopo che questo: la prossimità fra uomini e donne, un pretesto per toccarsi a vicenda. E il piacere che ne deriva scambiato per medicina.

Molti, a Parigi, sarebbero eccitati al solo pensiero di sfiorare la signora Goncourt.

Le sue dita sono lisce e morbide. Accarezzano la pelle scivolando avanti e indietro, avanti e indietro.

– Le cicatrici vi fanno soffrire, – dice la sonnambula con estrema fatica. – Sono cicatrici di guerra.

D’Amblanc annuisce d’istinto. I polpastrelli della Goncourt mandano lampi di calore lungo le ossa delle sue mani. Ciononostante, si sforza di illuminare con la ragione quello che ha appena udito: le cicatrici, la sua partecipazione alla guerra in America non sono certo un segreto. Madama Goncourt può averne sentito parlare, anche solo di sfuggita.

D’Amblanc si azzarda a domandarle dove si trovi la vecchia ferita che più gli duole.

La risposta tarda ad arrivare. Le dita della donna si stringono attorno alle sue.

– Nel vostro animo, – dice con un soffio. – Se vi lasciaste sonnambulizzare, ne otterreste grande giovamento.

La presa si allenta di colpo, la signora Goncourt si allontana come tirata da un filo invisibile.

Nel vostro animo.

Certo la risposta non è abbastanza precisa per essere la prova di quanto Puységur intende dimostrare. Eppure ha colto nel segno, là dove quelle cicatrici fanno davvero più male. Non solo: mentre quella donna, di solito così altezzosa e schiva, si prendeva cura di lui, D’Amblanc ha percepito un’onda benefica risalire i nervi, le vene, lo scheletro. Il benessere che sente di provare ora è reale, fisico.

Differente da quello che ha sperimentato tante volte grazie alle vasche e alle mani di Mesmer, ma non meno intenso.

La voce di Puységur risuona nella stanza.

– Ora il corpo di questa signora è un’appendice del mio, – spiega convinto. – La sua mente e la mia sono una cosa sola. Ella fa quello che io penso, dice quello che io voglio.

Una pausa a effetto, per godersi cinquanta paia d’occhi appesi alle sue labbra.

Il marchese accenna a muovere il braccio destro e la signora Goncourt solleva il proprio sopra la testa.

Il marchese si protende appena in avanti e la signora Goncourt muove un passo alla cieca verso di lui.

Se vi lasciaste sonnambulizzare, ne otterreste grande giovamento.

L’avvocato Bergasse interviene dalla prima fila.

– Signor marchese, come possiamo essere sicuri che le stiate impartendo proprio questi comandi?

Puységur gli rivolge un sorriso lieve.

– Volete provare a sostituirmi?

Bergasse non si tira indietro. Da quando ha strappato a Mesmer la promessa, in cambio di una lauta dote, di rivelare agli adepti i segreti del magnetismo animale, si comporta come il capobranco della Società dell’armonia. Ogni occasione è buona per mostrarsi intraprendente e determinato.

Il marchese lo istruisce, gli spiega che deve concentrarsi sull’emicrania della donna e desiderare con forza di alleviarla. Solo così ella si lascerà andare e l’esperimento potrà riuscire. Il motivo iniziale del rapporto dev’essere la cura, altrimenti il fluido non si dirige dove dovrebbe e la sonnambulizzazione fallisce. Gli fa sollevare una mano sull’elegante acconciatura della Goncourt. Gli ordina di pensare a un’azione che ella dovrà eseguire e domanda alla signora di assecondare i pensieri del nuovo venuto.

Bergasse la fissa intensamente, la mano in posizione, ma sulle prime non accade nulla.

– Non siete abbastanza concentrato, signor Bergasse, – dice il marchese a bassa voce.

– Le ho chiesto di togliersi le... – mormora Bergasse, ma non termina la frase perché la signora Goncourt si sta sfilando le scarpe senza nemmeno chinarsi.

– Stupefacente, – commenta Bergasse.

Il marchese lo invita a non distrarsi, altrimenti la donna potrebbe svegliarsi di colpo e questo la farebbe stare male.

Bergasse torna a fissare la dama.

– Se le ordinassi di togliersi il vestito, obbedirebbe?

La domanda scuote il torpore di tutti. Un brusio percorre la fila di teste nella stanza, misto di sdegno ed eccitazione, ma Puységur lo placa con un gesto della mano.

Bergasse ne approfitta per porre la domanda.

– Posso chiedervi di spogliarvi, signora?

La donna scuote la testa.

– No, – dice. – Non potete.

– Vi domando umilmente scusa, – si affretta a dire Bergasse, che già rimpiange la propria intraprendenza.

– Farmi alzare un braccio non può nuocermi in alcun modo, – insiste la donna. – Nemmeno sfilarmi le scarpe. Non così per gesti indecenti. Voi potete volere che io mi spogli con quanta forza avete in corpo, ma io non lo farò.

Le guance di Bergasse avvampano, e quelle di D’Amblanc pure, come se provasse disagio per l’indelicatezza dell’altro.

– Ho agito mosso soltanto dall’amore per la scienza, – si giustifica l’avvocato, e mentre lo dice si gonfia di sdegno per coloro che hanno potuto pensare male.

Toutain si alza in piedi e sembra voglia schiaffeggiarlo, per vendicare l’onore della sua prediletta. Carra e D’Eprémesnil si mettono in mezzo e lo trattengono. Puységur è imbarazzato, non sa che fare, forse si sente responsabile dell’incidente.

Finché una voce risuona nella sala.

– Basta!

Il richiamo di Mesmer ha l’effetto di un colpo di pistola. Tutti si bloccano e si voltano verso di lui. Il tedesco ha le mani sollevate, a palmi aperti, come se potesse tenere tutti immobili con la sola forza magnetica. Ed è quello che fa. Nessuno fiata.

– Marchese, volete essere così gentile da assistere Frau Goncourt? – dice rivolto a Puységur.

Questi risveglia la donna e si accerta che stia bene. Dopo aver fissato Bergasse, anche lei afferma di non ricordare nulla di quanto le è successo nei minuti da sonnambula, e resta il dubbio che lo stia graziando più che assolvendo. La tensione si stempera.

Se vi lasciaste sonnambulizzare...

Proprio mentre tutti si accingono a congedarsi, D’Amblanc alza la mano, dritta contro il soffitto.

– Chiedo scusa...

La voce è coperta dai primi convenevoli.

Mesmer nota il gesto e lo segnala al marchese.

Puységur chiede silenzio e fa segno di porre la domanda.

– Signor marchese, da quanto abbiamo visto, si direbbe che il sonnambulo non è alla mercé di chi lo magnetizza. Il volere dell’uno può dunque opporsi a quello dell’altro. Ebbene, in questo scontro di volontà, cosa determina la vittoria? Essa dipende dalla forza mentale, dalla distribuzione del fluido, dal grado di convinzione, dalla malattia?

Puységur annuisce e guarda la platea, studiando una frase a effetto per accomiatarsi. La frase da ricordare per sempre.

– È il bene che fa la differenza. Volere il bene e credere nel bene.

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