5.

Noi te lo si conta, ma mica c’eravamo. Lo si è urecchiato, come quasi tutti, da qualcheduno giù al foborgo, all’osteria della Gran Pinta. Quando le nostre due magliare e quell’altra si sono occhiate alla Convenzione, si sono odiate subito d’un odio sincero, da femmine. Soquanti dicevano che Marie e Georgette gliel'avevano giurata quelgiorno, quando batteva le mani ai brissotini che volevano gabellare noi di Sant’Antonio per nemici della rivoluzione e chiudere al fresco quel mentecazzo di Muzine. Il giorno dopo lo sapevano dalla Porta alla Senna al Trono–a–Rovescio chi era la saloppa di Brissot. E soquanti si son ricordati di quando era venuta fin là a reclutare donne per il fronte e s’era pensato che fosse una matta scappata dalla Salnitraia.

Ecco perché poi è successo quel che è successo.

Saloppa, però, va detto meglio. Ché mica eran tutte uguali precise, come pensavano certi gecchi sprovvidi. Ne avanzavano almeno di due specie.

C’erano quelle che conoscevamo noi, che facevano lo sgobbo davanti al Palazzo Egualità, o nei vicoli dei quartieri, nei sottani e negli androni. Quando la cagnaccia le pescava, piangevano anche con le urecchie, e tiravano fuori le storie delle loro vitacce schife che avresti riempito un libro intero. Erano le saloppe vergognose, costrette dalla bisogna, come si soleva e ancora si suole, per campare garzotti o vecchierelli. Molte praticavano dopo il tramonto, perché di giorno menavano travagli onesti, ma che non bastavano a sfamare la nidiata. Noi le si smerdava, ché non erano punto tempi pietosi; ma lo si faceva con ritegno, un po’ perché vuoi mai che in tale bisogna ci si trovasse tua sorella, o la tua vedova (rognaccia!), o infino tua madre (ché ce n’è di tasche leggere), un po’ perché se ti beccavano a «mancare di rispetto» a una femmina, foss’anche la più impestata, ti mandavano al gabbione.

Poi c’eran le altre. E quella là era una delle altre. Quelle che avevano la vocazione. Quelle che cianciavano che le donne avevan da essere libere di farsi tirare su le sottane da tutti gli uomini che volevano. Mica sgobbavano per strada, no, si facevano pagare begli appartamenti e bella vita dalla riccaglia che le insifiliva, meglio se nobilardi e pierculi, ché avevano più grasso da ungere. Arrivavano infino a cambiarsi nome per sembrare le grandame che non erano e alzare il tariffario.

Adesso figurale bene, fai conto di averle difronte: le amiche di Brissot son di quella razza.

La più famosa viene dall’Olanda e ce l’hanno poi anche rimandata, s’intende. Etta Palm d’Aelders, si chiama. Lei ci mette pure un «baronessa», anche se i baroni li ha avuti solo tra le gambe, e in realtà è figlia d’un usuraio di Groninga. Dicono che da giovenca fosse tanto leggiadra e belloccia che gli uomini sgomitavano per spulzellarla e chi restava fuori andava a cercare ispirazione sotto le sue finestre con l’arnese sull’attenti. Ne ha avuti più lei che sorci la Senna.

Nel suo circolo di femmine, prima di tornarsene da dove era venuta, pure quella cianciava di fare battaglioni di donne e mandarli al fronte a combattere con i maschi. Tanto lei mica ha mai avuto marmocchi da badare, e pure se ne avesse, li sfamerebbe col mestiere.

Un’altra stava ancora li a Parigi. Anche lei si faceva passare per grandama, ma era la figlia di un beccaio: Olympe de Gouges (il de se l’era attaccato con lo sputo, per i quarti che le mancavano). Cianciava che uomini e donne avevano da essere uguali anche se la natura li aveva fatti diversi. E diceva che anche bianchi e negri sono uguali! E che il libertinaggio è meglio del matrimonio e che a darla via a chi pare e piace non c’è vergogna! Nemmeno voleva che si tagliasse la crapa a Luigi. Anzi, s’era offerta di dire lei l’arringa difensiva. Una donna! Tra un’alzata di gonna e l’altra scriveva per il teatro, ché le manine devono restare morbide per palpare la saccoccia alla riccaglia. Insomma la madama teneva la penna in una mano e l’oca del conte nell’altra, per così dire.

Ma la nemica delle nostre magliare, Annagioseffa Théroigne de Méricourt, era la peggio di tutte. Prima della rivoluzione campava facendo la cantante e la cortigiana. Poi, quando è iniziato il Granballo, ha pensato bene di saltare il fosso. E siccome con la gonna veniva male, per farlo s’è infilata un par di brache e si è messa a fare l’amazzone. La Furia della Gironda, la chiamano alle Tegolerie, perché regge il moccolo (e pure qualcos’altro) a Brissot e ai suoi compari.

Al foborgo si è applaudito anche coi piedi per come l’hanno conciata. Qualcheduno c’era, qualchedunaltro se l’è fatto contare. Alla Gran Pinta la dicono in un modo, al mercato della Porta in un altro, e giù al fiume la storia è ancora diversa, ma, più a occhio che a croce, si può dire che le cose sono andate così.

Dopo che magnacumgaudio è passato il maximum, soquante magliare ci hanno preso gusto a stare alla Convenzione. Pareva che per noialtri stracciaculi la faccenda portava bene e anche meglio. E siccome che le donne non potevano perdere un giorno di lavoro per stare dietro a quello degli scaldasedie, qualcuna ha scodellato l’idea di portarsi il lavoro da casa, occupare la prima fila in tribuna e sferruzzare sotto il naso dei ciancioni (e chissà che qualcheduna, dopo il Massimo, non volesse applaudire ancora il Massimiliano).

Il guaio era infilarsi, ché alle nostre brave donne, mogli madri vedove senza doti e senza denti, nessuno teneva i posti riservati, come invece alle altre.

Com’è come non è, quel mattino, in fila per entrare alle Tegolerie, c’erano le più gagliarde: Marie, Georgette, Sophie, Amandine e Madeleine, sotto braccio l’una con l’altra per reggere le spinte dadietro, e ogni tanto, quando alle spinte s’aggiungeva una mano rattosa, rifilare belle stoccate con la ferraglia puntuta che avevano appresso. E così, tra appelli al civismo e bestemmie all’umanità, la fila si slungava e si stringeva a fisarmonica da più di due ore.

A un bel momento spunta l’amazzone impettita e impennacchiata, braga e cappello da uomo, fronte alta e naso dritto. Si mette a camminare tronfissima lungo la fila, dal fondo fino in cima. Tanto a lei, Annagioseffa, il posto lo tiene Piergecco Brissot in persona. Facile che ci tiene proprio una mano sopra e non la toglie manco quando lei si siede.

E così, a chi ha fatto la fila torna su la colazione per l’incazzo, a qualcheduno per davvero, ché a forza di strilli rimette in piazza il magro desinare del mattino e non è un bel vedere per nessuno (a parte un cane randagio che passa di li, e rimedia bene), e tutti si sgargarozzano e tiran giù santi e antenati dalle cadreghe in paradiso. Ma quella passa davanti a tutti senza battere ciglio, che a battere cassa ci penserà poi stasera, dopo aver fatto la sua parte là dove sta andando.

Ebbene, quando passa accanto a Georgette, si vede rifilare uno scaracchio centrato proprio sulla faccia. Allora s’arresta, s’asciuga, occhia malamente la magliara, a dire: «Come osa lo sterco di cavallo schizzare così in alto!», poi le molla un manrovescio che il ciocco lo sentono anche in fondo alla fila e le altre devono reggere Georgette altrimenti vola a gambe per aria.

Allora si ch’è iniziata la Carmagnola. Le son saltate sopra come gatte artigliose: Madeleine l’ha brancata per un braccio, Sophie per l’altro, una zampa a Marie e l’altra ad Amandine, mentre Georgette ordinava la sentenza, ché si sa, il tribunale delle magliare è parecchio più spiccio di quello rivoluzionario, soprattuto se giudice e boia son la persona medesima stessa. – Ai Giardini! Ai Giardini! – ha strillato. E ce l’hanno portata di peso, dove che comincia il prato. Chi c’era dice che Georgette aveva gli occhi di fuori dalla fotta, con mezza faccia rossa e gonfia per la sganassa e l’altra metà color cadavere. – Nuda! – ha detto con un ghigno più da donnola che da donna. E le altre giù a sbucciare l’amazzone come un cipollo: via la giacca, la camicia, giù i culotti e le mutande, con gran starnazzo d’anitra di quella. Poi l’hanno piegata in avanti, ché le chiappe sbiade fossero ben in vista all’universo mondo. Allora Georgette ha strappato un ramo da uno degli alberucoli li attorno e ha dato un paio di frustate in aria che han fischiato forte. Quando la brissotina ha nasata cosa le toccava si è messa a strillare ancora di più, a dimenarsi e gridare aiuto. Aiuto a chi? Marie e le altre la tenevano ben bene, pure per i capelli, e quelle non son femmine che si commuovono per il zigolare di una donna o il sudore di un cavallo. La gente della fila rideva e sguaiava con certe bocche cave e sdente, mentre la Méricourt doveva porgere il culo allo scudiscio. Cosi Georgette s’è messa di buon legno, come quando batte i panni al fiume. E ogni colpo l’ha piazzato proprio darré, dove la ciccia è tenera e fa più male, che la sprovvida dovrà mangiare in piedi e dormire di pancia per un pezzo, dal gran che ha il culo a strisce. E chissà dove andava a parare ’sta zuffa di donne, se da dentro non arrivava qualcheduno ad accucciarle, e mica un gecco qualdunque, no. La fila s’è aperta come le acque del Mar Rosso per Mosè, invece era Marat, pustolato e stazzonoso come sempre. Mentre passava, il suo nome scivolava da una bocca all’altra come un sibilo di un pentolone che ribolle. L’Amico del Popolo ha marciato fino al groviglio di femmine e ha bloccato la cagnara senza nemmeno una parola, ma con certi occhi brutti che erano come scoppole e calcioni. Le magliare si son fatte da parte mogie mogie. Marat ha raccolto la brissotina scarmigliata e striata, e le ha buttato addosso alla meglio i suoi stracci, per il pudore repubblicano, s’intende. E mentre la portava via, tutti quanti han pensato che sorte infame toccherebbe alla patria e alla rivoluzione se si lasciasse fare alle donne, senza certi pezzi d’uomini tutti d’un pezzo come Marat che le rimettono là dove devono stare.

Però, poi, la sera e ancora i giorni dopo, alla Gran Pinta, non si finiva più di raccontarsela, la sbattezzata di Théroigne de Méricourt, e qualcheduno avrebbe appeso le sue mutande sopra il bancone come un trofeo e il ramo giustiziere di Georgette ancora più in alto, accanto al tricolore, se solo si fossero tenuti da conto. E le nostre magliare giravano tutte Sgallettate e gonfie, con le coccarde davanti e didietro, e l’aria di chi aveva fatto un gran servizio alla patria.

Almeno, così la si è sempre saputa noialtri.

Estratto dal

RAPPORTO SEGRETO SUL MESMERISMO

Redatto da Bailly

I commissari incaricati dal re dell’esame del mesmerismo, hanno riconosciuto che le principali cause degli effetti attribuiti al magnetismo animale sono il tocco, l’immaginazione e l’imitazione, e hanno osservato che c’erano sempre più donne che uomini in crisi.

Sono sempre gli uomini che magnetizzano le donne; le relazioni così stabilite non sono senza dubbio quelle di una malata nei confronti del suo medico, perché questo medico è un uomo, e quale che sia lo stato della malattia, ciò non ci spoglia del nostro sesso. D’altra parte, le donne che si rivolgono alle cure magnetiche non sono davvero malate. Molte vi ricorrono per noia o per divertimento, altre, che hanno qualche incomodo, conservano comunque la loro freschezza e la loro forza. Esse dunque hanno abbastanza fascino per agire sul medico e hanno abbastanza salute perché il medico agisca su di loro. Dunque il pericolo è vicendevole.

II trattamento magnetico non può che essere pericoloso per la morale. Proponendosi di guarire malattie che richiedono lunghe cure, si eccitano emozioni piacevoli e care, emozioni che poi si rimpiangono, che si cerca di ritrovare perché esse hanno un fascino naturale per noi e contribuiscono fisicamente alla nostra felicità, ma moralmente non sono meno condannabili e sono anzi ancor più pericolose, perché è più facile prendervi una dolce abitudine.

Fatto a Parigi, l’11 agosto 1784.

FIRMATO

Benjamin Franklin

Gabriel de Bory

Antoine-Laurent de Lavoisier

Jean-Sylvain Bailly

Michel-Joseph Majault

Charles-Louis Sallin

Jean d’Arce

Joseph-Ignace Guillotin

Jean-Baptiste Le Roy

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