I.

– Ma è più bella l’avventura, senza ieri né domani, tutto il mondo fra le mani, per fermarsi o per andar!

Scaramouche terminò la sua tirata con le braccia al cielo e Léo Modonnet, l’attore che lo impersonava, spari dietro le quinte in uno scrosciare di applausi.

Il teatro era pieno, tutto esaurito per la terza sera di fila. Nulla di strano, pensò Léo, quando si diffonde la voce che su un palcoscenico minore, tra molti bravi gregari, si esibisce anche un cavallo di razza, uno che dovrebbe stare alla Commedia francese, e per vederlo dovresti metterti in coda e pagare fior di quattrini.

I colleghi, tuttavia, non lo accolsero come si aspettava. Sui volti, al posto della giusta riconoscenza o dell’ammirazione, lesse piuttosto tristezza, scoramento, e si chiese se non fossero così abbattuti per l’ulteriore conferma di quale voragine di talento si stendesse fra lui e loro.

Domandò lumi a Colette: almeno lei doveva essere orgogliosa della prova del suo uomo.

– È morto Goldoni, – gli rispose la donna senza alzare gli occhi.

Carlo Goldoni? – la incalzò Léo, più per darsi il tempo di concepire l’accaduto che per un implausibile dubbio sull’identità del defunto.

– Ce lo ha detto Hugo, pochi attimi dopo che sei andato in scena.

– Dovevate fermarmi! – si inalberò Léo. – Come si può recitare in un momento simile?

Scrollò il capo, incredulo. Le labbra ripeterono sottovoce, un paio di volte, il nome del maestro. I ricordi fecero pressione in testa: Bologna, Villa Albergati... Ricordi di bambino, storie troppo lontane, ma arricchite e favoleggiate nel corso del tempo, grazie ai racconti dei più grandi. Se n’era parlato a lungo di quella visita, l’ultima dell’avvocato Goldoni nella tenuta del marchese. Il maestro era sulla via di Parigi, ma si era fermato a Bologna un mese, trascorso in gran parte a letto per colpa di un fastidioso e cocciuto rèuma.

L’attore lo aveva rivisto a Parigi molti anni dopo. Goldoni era anziano e cieco da un occhio, eppure sempre saggio e brillante, sempre...

Léo si scosse e fece segno di aprire il sipario. L’attacco del secondo atto spettava di nuovo a lui e il pubblico lo accolse con entusiasmo, ma egli levò in alto le braccia e agitò le mani come per dire: «No, no, aspettate». Quando il silenzio calò sulla platea, riempi d’aria il petto e disse:

– Cittadini, mi giunge ora notizia che poco fa, mentre qui si recitava e si rideva, un uomo nobile moriva in solitudine e povertà, nella sua casa di Parigi: il grande Carlo Goldoni, il Molière italiano, la cui dipartita ci lascia orfani del suo genio...

Al nome di Goldoni, un brusio montò dalla platea, ma Léo non si lasciò distrarre:

– Un maestro, un re tra i suoi pari, che aveva patito i rovesci della sorte, privato della pensione e spesso incompreso.

Il brusio si trasformò in uno scambio plurimo di ingiurie, la platea parve dividersi in due fazioni, qualcuno già si accapigliava. Léo esitò, perse per un attimo il filo dell’improvvisazione, quindi riprese con impeto rinnovato:

– Quando un uomo simile a un sole declina e scompare, chi rimane nel buio ha il dovere di onorarlo. Noi, sudditi suoi nel reame dell’arte...

Una sedia volante andò in pezzi sul palco. Léo fissò il punto dov’era atterrata e, vista la distanza, giudicò che non fosse diretta contro di lui. Nondimeno, giudicò pure che fosse arrivato il momento di andarsene.

– Noi, dicevo, continueremo a recitare in suo onore. Ma non stasera. No. Adesso è il momento del lutto e del raccoglimento. Cittadini, la rappresentazione finisce qui.

Mentre usciva, insieme ad altri oggetti che non si prese la briga di identificare, volarono anche parecchi insulti. Paradossalmente, erano proprio gli inviti alla calma a essere pronunciati nella maniera più stentorea e cattiva.

Dietro le quinte, Léo pensò che il parapiglia fosse nato perché il pubblico, anche di fronte a un lutto così grave, desiderava lo stesso vederlo recitare, in quel ruolo di cui tutti parlavano, e non sentirlo improvvisare un epitaffio.

Il capocomico gli corse incontro agitando i pugni:

– Che ti è saltato in testa? Sei ammattito? Vorranno indietro il prezzo del biglietto! Cinquanta soldi per almeno cento persone! L’impresario ci farà causa.

– È morto Goldoni, – rispose Léo. — E io stasera non recito più.

Le facce dei colleghi trasudavano approvazione.

Léo capi: ci si attendeva da lui un gesto risolutivo, una parola d’ordine.

– Andremo tutti quanti alla casa del maestro, – propose, – per rendergli l’omaggio che merita.

Le voci che si levarono tutt’intorno gli diedero conferma di aver interpretato al meglio il desiderio dei suoi sodali.

– Un gesto doveroso.

– Giustissimo.

– Iniziativa encomiabile.

– Un faro s’è spento.

E così antifonando, come un sol uomo, schizzarono in strada dall’uscita sul retropalco.

Fino a via Santo Salvatore era una bella camminata, ma Léo non accusava stanchezza alcuna. E dire che nella giornata aveva mangiato poco e male, ma ora procedeva in fretta, alla testa dei colleghi, un manipolo in abiti eccentrici, coccarde tricolori bene in vista, per le strade di una città gelida e con poca voglia di dormire.

Colette si sforzava di seguirne il passo, di stargli a fianco, anche se questo voleva dire cambiar spesso andatura, i lembi della gonna tenuti sollevati dalle mani.

– Dove giriamo ora?

– Non ricordo bene, Léo. Direi di svoltare a destra e poi dovremmo essere arrivati.

Preso da una ridda di pensieri, Léo svoltò dove indicato. Mentre tutti camminavano in fretta, le braccia a seguire l’alternarsi dei passi, Léo procedeva a capo chino, le mani allacciate dietro la schiena, il che gli conferiva un’aria di preoccupata autorità.

– Eccoci, – trillò Colette. – Santo Salvatore dev’essere la prossima.

Sotto le finestre di casa Goldoni, il gruppetto sostò in silenzio per qualche istante, i visi all’insù, come se da sopra potesse scendere un alito, uno spirito, una voce. Attraverso uno dei vetri, s’intravedeva soltanto una luce flebile. Qualcuno vegliava.

Dal centro del gruppo, a rompere il silenzio, venne fuori un tono baritonale.

– E ora che siamo qui che facciamo, Léo?

L’interpellato avvampò.

– Che facciamo? Ci raccogliamo, meditiamo sulle sorti umane e della nostra arte. La prima cosa è doverosa nel caso di ogni dipartita, e la seconda, la seconda... – Léo parve trattenere a stento uno scoppio di pianto, portandosi la mano destra alla fronte. Dopo un lungo sospiro prosegui.

– Qualcuno... – Léo si guardò intorno. – Qualcuno terrà un discorso funebre.

Le voci di risposta si sovrapposero.

– A te il discorso, Léo.

– Un altro? Ma non s’era già udito poco fa?

E la voce baritonale: – Non sei più sul palco, Léo.

Con consumata abilità, Léo destinò agli interlocutori tre distinte occhiate: ringraziamento, lieve compatimento, compatimento pieno.

Guardò di nuovo in alto e Colette si accorse che la commozione era vera. Per certo, una lacrima scendeva sulla guancia.

– Avanti, Léo, andiamocene, – disse la voce baritonale, – ci siamo fatti notare anche troppo. Non hai visto prima che è successo?

– Ho visto, si, Saint-Jacques, per questo vi ho messo fretta. Eravamo tutti d’accordo, o no? Mi sembra di ricordare una voce che diceva: «Si, certo, è doveroso, un gesto dovuto», e un’altra lamentarsi che s’era spento un faro, una luce, una luce posta in cima a un faro, il Colosso di Rodi... E non ero io, Saint-Jacques.

– Ha ragione, Saint-Jacques, se siamo qui un motivo c’è, e non è contro la legge rendere omaggio a un grand’uomo.

– Un uomo nobile, senza pari.

Léo annuí. Cercò nella tasca del pastrano, frugò in maniera sempre più concitata, poi si fermò, come un meccanismo che avesse esaurito la carica.

– Il libro, – mormorò.

– Che libro, Léo?

– Come, che libro? Le Memorie del Goldoni. Ho lasciato il volume in teatro. Tocca tornare indietro.

– Le Memorie? Ma sono parecchi volumi in quarto.

Léo impallidì alla luce del lampione.

– Ne posseggo solo il secondo tomo. Quello più importante.

– Ah, be’. Comunque siamo stanchi, e il nostro dico che l’abbiamo fatto. Il gesto di reverenza e omaggio, dico.

I due si guardarono in silenzio. L’ultimo che aveva parlato aggiunse, in tono diplomatico: – Improvvisa, no?

– No, amici e colleghi, no. Meglio leggere parole scritte dal maestro, parole in grado di ispirarci e guidarci. Le mie non sarebbero mai all’altezza.

– Torna tu, corri, – Colette fece un gesto con la mano, come a spingerlo. – Noi attendiamo qui sotto.

Si accese una piccola rivolta.

– Come, attendiamo? Al freddo? Di notte?

– Attendi tu, se ci tieni. Fa troppo ghiaccio.

– Animo, Léo, improvvisa. Come prima. Sarà un grande discorso.

– Si. E sbrighiamoci.

Per tutta risposta, Léo girò sui tacchi e si avviò in fretta lungo la strada appena percorsa. Non fece che pochi passi quando una voce lo bloccò.

– Fermatevi, cittadino. E anche voi, fermi tutti.

La cagnaccia. In forze. Riconobbe un tizio che in teatro era in prima fila. L’uomo lo indicava a dito parlottando a bassa voce con il capo della sbirraglia.

– Cittadini, siete tutti in arresto per turbamento dell’ordine pubblico.

Due sbirri lo raggiunsero e gli bloccarono le braccia, ognuno su un lato. Il capo gli si parò innanzi, un caio dalle ossa grosse e i lineamenti volgari.

– Siete voi Léo Modonnet, l’attore?

– Sì, sono io. Ma non ho fatto nulla.

– Con le mani forse no, ma con la bocca avete fatto eccome. Ci abbiamo messo del bello e del buono a sedare il parapiglia.

Léo guardò con disprezzo l’uomo che li aveva guidati fino a loro, quello che stava nelle prime file a teatro. Il capo–cagnaccia prosegui.

– Dunque, muoviamoci. O con le buone o con i ferri ai polsi, a voi la scelta.

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