I.

Un conto è dormire su un carro. Un conto è dormire in un pagliaio. Tutt’altra cosa dormire sotto un ponte. Pontenuovo, lo chiamavano i parigini. E dormire, mica si trattava di dormire davvero: era un prendere sonno a stento, per poco, devastati dalla stanchezza, con un buco nello stomaco, dove Léo aveva fatto, suo malgrado, abitudine al cibo.

Aveva dovuto vendere tutto quel che non serviva. Anche i vestiti buoni, due: uno fatto fare a Bologna, l’altro comprato in Francia coi primi soldi del teatro. I soldi, già. Erano esistiti.

Ora invece esisteva Pontenuovo. Sotto, era la sua precaria e pericolosa dimora notturna. Sopra, e nelle vie intorno, era il suo luogo di lavoro. Saltimbanco senza un banco su cui saltare e nulla, nessuna pozione per la virilità né lozione per capelli, da vendere. Gli toccava una vita di merda, all’attore. Bravo era bravo, ma stanco vieppiù, e i lazzi dopo un po’ uscivano male, e poi doveva far tutto da solo, uno sbattimento, una fatica improba, e quelli, i parigini, in pratica gli facevano l’elemosina, per giunta magra. Sembravano aver preso interesse ad altre cose, i parigini. Avevano sviluppato il gusto per un teatro più vasto, e Léo ne calcava soltanto i margini.

Aveva conservato: un vestito di scena, mezzo Scapino e mezzo Scaramouche; una camicia bianca, rattoppata; una maschera col nasone. Poi: un fagotto; delle candele; un tomo delle Memorie del maestro Goldoni.

Anche le scarpe se ne erano andate, barattate per un po’ di denaro e degli zoccoli di legno. Leonida Modonesi si era abituato al rumore che producevano sul selciato, e negli ultimi giorni aveva notato che suonavano strascinate, le rustiche calzature. Ormai aveva il fiato corto, e il passo lento.

Tra gli ambulanti che lavoravano sul ponte, soltanto con uno era nata simpatia, forse perché pure lui veniva dall’Italia. Da Bergamo, come Arlecchino. Rota, si chiamava. Era un omarino senza età e con una gamba storta, che ogni mattina zoppicava fino al ponte col suo carrello di libri e almanacchi. Era quel che in Francia chiamavano un bouquiniste. Già il primo giorno, Léo gli aveva detto che a Bologna la parola bouquin – buchén – non indicava il libro, ma quel particolare, sempre apprezzato lavoretto che certe donzelle eseguono con la bocca... Ridendo di gusto, Rota gli aveva detto: «Mi hai visto? Se invece dei libri vendessi quelli, non tirerei su una lira!»

Poi aveva contraccambiato con l’equivalente bergamasco di fèr un buchén: fà öna ciciàda.

Il primo giorno a Pontenuovo, Léo aveva ancora voglia di scherzare.

L’aveva persa presto.

Sotto Pontenuovo, in una notte senza luna, i pensieri tristi e commiseranti sembravano gli unici possibili.

Chiuse il libro di memorie e si accinse a spegnere il mozzicone di una candela, quando un barbaglio della fiamma illuminò una porzione di muro. C’era scritto: «... epubblica» e «Vive la Trance». Léo aguzzò gli occhi e se non fosse stato così stanco si sarebbe mosso per controllare la scritta più da vicino. Sembrava proprio «Vive la Trance». Léo si convinse che doveva essere un’illusione ottica dovuta al riflesso dei lampioni sull’acqua, magari con il concorso di occhi stanchi e mente angustiata. Si convinse che doveva esserci scritto «Vive la France», anche se l’ultima occhiata verso il muro gli disse il contrario. Spense la candela. Faceva fresco.

La lanterna magica della mente proiettava ricordi, a brandelli e spezzoni. Eventi delle ultime ventiquattr’ore, eventi di qualche anno prima. Cose che accadono nella vita degli uomini: segni che prendono significato con il tempo, parole che non si sarebbero mai volute udire o pronunciare. La Senna sciabordava, l’umidità infradiciava le ossa. Léo si chiese, a un certo punto della proiezione, che mai significasse la parola Trance. Gli suonava familiare, eppure non era certo di averla mai udita prima. Forse non era nemmeno una parola. Forse era un refuso, finito sul muro per chissà quale motivo: un carbone scivolato dalle mani e rotolato nella Senna, o il muro che si sbreccia proprio sul secondo braccetto, quello piccolo, della effe.

Trance. No, doveva essere una parola. Non ne conosceva il significato, ma il suono evocava una specie di danza, come una giga o un trescone, di quelli che si ballano sui monti dietro Bologna. E si, doveva essere un ballo collettivo, di schiere, uomini e donne da una parte e dall’altra, e la musica preferita per quei passi doveva essere suonata da trombe, tamburi e violini.

Léo attendeva come una momentanea liberazione la breve catalessi che costituiva tutto il suo sonno. C’era una doppia prigione: quella diurna, fatta delle strade della città e della sua misera condizione, e quella notturna, fatta di circonvoluzioni della mente, ricordi, sentimenti di tetra disperazione alternati a momenti di esaltazione insensata, e su un piano più materiale, fatta di umidità e del puzzo che saliva dal fiume, e dalla mole di Pontenuovo che nascondeva il cielo. Gli sembrava che la vita fosse un poderoso meccanismo a orologeria, che lui stesso aveva assemblato, pezzo dopo pezzo, nel corso degli anni, e gli pareva che il meccanismo avesse il solo scopo di chiudersi su di lui, come una bara fatta di gesti passati.

Un enorme ratto uscí dall’acqua e risali la banchina annusando, il muso all’aria, le ore della notte.

Léo si armò di zoccolo e fronteggiò l’intruso, che si mise ritto sulle zampe posteriori. Era grosso come un cane di piccola taglia, o come un istrice. Emise una specie di fischio, che suonò come un richiamo o un avvertimento. Senza fretta eccessiva, si allontanò e le sue tracce d’acqua si persero nel buio.

Un’uscita di scena degna di Capitan Fracassa.

Léo pensò che aveva vissuto abbastanza per vedere la Tracotanza incarnata in un ratto della Senna.

E provò di nuovo a dormire, ma niente. Sotto il rustico panno militare, lo morse nella carne l’avvertimento di una mancanza, originaria quasi quanto la fame. Nelle condizioni in cui si trovava, non avrebbe certo potuto sperare di colpire lo sguardo di una donna. La donna: ecco quel che serviva ora. Una donna, una brava donna, o non brava ma che guadagnasse. Aveva sempre ritenuto che, alle brutte, qualche vedova o qualche ostessa sarebbero comparse e lui, che non era uomo disprezzabile, sarebbe verosimilmente stato conteso, disputato. Un consesso di baccanti lo avrebbe dilaniato e quelle, esaltate, infoiate, si sarebbero cibate delle sue carni e soddisfatte con il suo sangue: in quel momento, quasi gli sembrò una fine decente.

Donne. Il carnevale che colpiva la Francia le aveva mutate. Andavano in giro a branchi, come erano soliti fare i ragazzini, spesso senza alcuna attenzione per convenienza e decoro. Facevano politica. Léo ne era affascinato. In cuor suo riteneva che, di fronte alla vita e all’arte, decoro e convenienza contassero zero.

In ogni caso, mancava una donna. Mancava subito, al posto della mano che scendeva verso l’inguine, e mancava in prospettiva, come sostegno, riparo, compagnia. Léo pensava queste cose e intanto, come a propiziare il sonno mediante l’induzione di ulteriore spossatezza, la mano afferrava il membro sotto il costume di scena, le brache di Scapino, e la mente formulava un augurio, che apparisse presto una vedova o un’ostessa che lo raccattasse e lo salvasse da quell’esistenza troppo prossima alla morte.

Il dormiveglia si trascinava tra raffiche d’immagini vaghe e scariche di pensieri, associazioni senza senso. Finalmente, Léo dormí.

Passò ben poco e un clangore lontano sorse nel fondo della coscienza, e si accrebbe sempre più distinto.

Campane.

Campane a stormo, come quando si segnala un incendio.

Léo aprí gli occhi ed era ancora buio. Imprecò in bolognese, assaporando l’oscenità e la blasfemia.

Campane. Campane a martello. Non cessarono per un bel tratto.

Cani abbaiavano: si rispondevano da una riva all’altra del fiume.

A Léo parve di udire clamori lontani: era stanco, ma lucido e in allarme. All’alba potevano mancare un paio d’ore. Dopo un po’, l’orologio batté le quattro.

Dopo un’ora, le prime luci.

Léo si accinse a salire sulla scena, cioè su Pontenuovo, sperando di arrivare a sera senza troppi problemi, e di mangiare almeno una volta. Allestire il palcoscenico era facile: un berretto rovesciato, un cartello che inneggiava alla Repubblica. Mentre saliva le scale si accorse che sul muro c’era scritto davvero «Vive la Trance», qualunque cosa volesse dire.

Gli scalini pesavano sulle gambe, ma come dio volle Léo si ritrovò di sopra, sul ponte. Si scopri ad annusare l’aria, come il ratto sorto dalla Senna qualche ora prima.

Non c’era ancora Rota, né alcun altro degli ambulanti che condividevano il precario luogo di lavoro. Doveva essere molto presto, ma Léo si insospettí quando, col trascorrere dei minuti, nessuno venne ad allestire alcunché. Nemmeno il savoiardo che vendeva bastoni da passeggio e ombrelli, che era il più mattiniero.

Intanto il clamore si avvicinava. Léo vide gruppetti di persone dirigersi a passo rapido, o di corsa, verso l’altro capo del ponte, da dove pareva salire il rumore.

Léo capí. Corpi che si univano a una folla.

La folla divenne visibile. In maggioranza uomini, ma anche donne. Cantavano, si lanciavano richiami e incitamenti. Portavano picche e fucili. Léo si avvicinò alla folla che avanzava, via via sempre più svelto, come se quella gente fosse un magnete, come se l’eccitazione percepita nell’aria prendesse a scorrere nei condotti del corpo. Léo si trovò circondato dalla folla. La gente prese a scendere dall’altro lato del ponte, quello dove si apriva il parco d’artiglieria. – Al cannone! Al cannone! – senti gridare. Il cannone? Léo pensò che un’armata nemica stesse risalendo la Senna e occorresse fermarla.

Ora la folla occupava l’intera piazzaforte, e Léo sgomitò per avvicinarsi al cannone, dove i capi del popolo in armi si erano fermati. Cristo d’un dio, stava accadendo qualcosa, e stavolta lui c’era in mezzo, non come quando avevano segato il collo al re. Qualcosa, si. Qualsiasi cosa, pur di allontanarsi dai topi di Pontenuovo.

Parlavano concitati, Léo non riusciva a udire bene quel che dicevano. Ricostruì che si trattava di un cannone d’allarme, che doveva sparare perché la Repubblica era in pericolo, e Léo capi: non c’era alcuna armata a risalire la Senna, si trattava dei famigerati «nemici interni». Léo provò ad avvicinarsi ancora, gonfiando il petto come un vero patriota. Si. Ora la folla era silente e si coglievano le battute dello scambio. Volevano far sparare il cannone, subito, e sventolavano sotto il naso di un ufficiale un foglio che era un ordine eccezionale. L’ufficiale si stringeva nelle spalle. Diceva che l’ordine non era valido, che ci voleva un mandato della Convenzione, datato e firmato, ché chi sparava senza quella firma era passibile di pena di morte. Qualcheduno voleva rischiarla, la zucca? S’accomodasse e sparasse, ma tutti erano testimoni che insomma, lui, l’ufficiale, s’era opposto.

Sconcerto e rabbia attraversarono la folla. Léo li avverti come onde elettriche, di quelle che fanno rizzare i peli sulla schiena e sulle braccia.

I capi, là davanti, tennero un conciliabolo. Si decise di mandare in fretta dei delegati per farsi firmare l’ordine dalla Convenzione. Scelsero i più presentabili. Rimase dunque la feccia.

E subito la feccia, Léo tra questi, prese a dire che ci sarebbe voluto troppo tempo, che era una cosa senza senso, che dovevano spicciarsi, che l’ufficiale facesse sparare e si levasse di mezzo. E lui ribadíva: io non dò fuoco alla miccia, nossignore. Alla mia testa ci tengo, io.

I più animosi, rifletté Léo, non erano che i più verbosi. Al di là dei gesti, dei volti torvi o deformati dalla passione, quella gente non era abbastanza decisa. Mentre rifletteva, senza pensarci, commentava ad alta voce in vernacolo. Intanto l’ufficiale diceva: l’ordine? Portatemi un ordine valido e controfirmato, e sparo io. Se no, fatelo voi. E faceva cenno con la mano sul collo, a simulare la decapitazione.

Léo si senti sfidato. Insomma, la sua recita saltava, la matinée, e quei segaioli rimanevano bloccati, e il cannone nemmeno sparava?

Stamò bono c’ai pans me, brott dio d'un boia. Vût vadder?

Fece un passo avanti, poi un altro. Adesso era di fronte all’ufficiale.

Càvet bän d’in mèz ai marón! – e lo scostò. – Branco di pugnettari! – apostrofò tutti quanti. La gente fissava il costume e la maschera appesa al collo. Léo fece un cenno a uno dei tipi torvi nella folla, e questi, come rispondendo a un ordine, passò un acciarino. Léo biascicò ancora qualcosa: – Mo guerda te, boia ed diona... Av la dâg me adès!

Armeggiò con l’attrezzo e, nel silenzio più assoluto, accese la miccia.

Acsè!

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