III.

«Popolo italiano, già signore, oggi locandiere di tutte le genti del mondo!» fremeva nella Battaglia di Benevento il Guerrazzi. E in questo fremito, fiero di shakspeariano disprezzo, è il primo segreto della tetraggine irosa dello scrittore, la causa prima della disperazione che irrompe come una fiamma sinistra da tutto il romanzo.

Passato quel periodo acuto di parossismo byroniano, la coscienza del cittadino si era andata formando più chiaramente nello scrittore, e lo scrittore allora volle drizzar quella fiamma a scaldare ed accendere il cuor della patria. Per eccitar la sensibilità dell'Italia caduta in letargo, egli la feriva, «e nelle ferite infondeva zolfo e pece infuocati». Sono sue parole anche queste, e queste parole ci dicon gl'intenti coi quali fu concepito il suo capolavoro.

Disgraziatamente, il periodo di tempo nel quale [164] egli scrisse L'assedio di Firenze fu uno dei più dolorosi di tutta la sua vita. Nel giro di pochi mesi gli perirono le persone più care: gli morì, fulminata nel cuore, l'unica donna che amò, e quando lo seppe, ne incanutì in una notte; gli mancò il padre suo, che, rigido ma affettuoso e consapevole dell'ingegno del figliuolo, lo aveva educato a sensi magnanimi; perdè in Carlo Bini l'amico più buono e geniale della sua giovinezza, e in Tommaso Bargellini il suo più tenero compagno d'infanzia; e finalmente perdè, quasi assassinato, il fratello Giovanni, che gli lasciò su le braccia, per solo retaggio, due orfani.

Con tanto cumulo di dolori caduti l'uno di seguito all'altro su l'anima sua esulcerata dalla nuova prigionia, non deve dunque far meraviglia se pur nel suo capolavoro abbondino le tinte fosche anche più di quel che il soggetto tragico le richiedesse, nè deve parer troppo strano che un libro siffatto cominci con un lamento.

Anche il lamento, per altro, non è, e non poteva essere in un tal uomo, querimonia e rassegnazione, ma sfida e minaccia. E il Guerrazzi che, custodito nella sua segreta, impreca ai tiranni della terra, somiglia un po' (e non senza un tantino di posa) a Prometeo, che, inchiodato alla rupe, impreca al tiranno del cielo. Più nobile e più eloquente, in ogni modo, quando, poche pagine dopo, restando dal [165] maledir gli oppressori, si volge a eccitare gli oppressi: «Finchè, sollevandosi al cielo, le vostre braccia sentiranno il peso dei ferri nemici, non supplicate; Iddio sta coi forti! La vostra misura di abiezione è già colma; scendere più oltre non potete; la vita consiste nel moto; dunque sorgerete! Ma intanto abbiate l'ira nel cuore, la minaccia sui labbri, nella destra la morte. Tutti i vostri Iddii sprezzate; non adorate altro Dio che Sabaoth, lo spirito delle battaglie. Voi sorgerete.»

E seguita ancora, sempre più terribile e sempre profetico, perchè qui veramente nel Titano risorge il Profeta, e la sua prosa assurge a una vera altezza lirica e biblica, che non è più byronismo, che non è più maniera, che non è più rettorica.... E se oggi par tale, benedetta quella rettorica! Il suo fremito, allora, faceva fremere tutti, tutti scoteva quell'impeto e inebriava quell'odio; e le pagine del poema, copiate con lunghe fatiche e passate di mano in mano furtivamente, correvano intanto, rapide come un incendio, l'intera penisola.

L'autore dell'Assedio di Firenze non è un romanziere o uno storico, non è neppure soltanto un poeta o un profeta, ma un combattitore e un vendicatore: vendicatore di tre secoli di servitù, di tre secoli d'ignominia, quanti ne erano corsi dalla caduta della repubblica fiorentina, sopraffatta dall'armi e dai tradimenti di Carlo V e di Clemente VII; [166] che è quanto dire dalla caduta dell'ultima libertà italiana affogata nel sangue, dall'ultimo moto del cuore d'Italia, che per trecento anni doveva cessare di battere.

E il Guerrazzi fu pari, per ingegno e per animo, all'alto argomento, in mezzo al quale ci trasporta con passione di attore e di contemporaneo, più che con calma di storico. E noi vediamo tutto un popolo eroico muoversi e agitarsi nelle sue pagine, dove (lo notò primo il Mazzini) Firenze sola è protagonista. Vi sono figure principali, anzi colossali, che staccano in piena luce di gloria nella composizione del grandissimo affresco: Francesco Ferrucci, Michelangelo Buonarroti, Dante da Castiglione, il gonfaloniere Carduccio, e quel macro profilo di Fra Benedetto da Foiano, dalle cui labbra inspirate sembra prorompere sotto le arcate di Santa Maria del Fiore lo spirito del Savonarola vegliante su la tradita repubblica; ma unico e vero protagonista del libro è la patria, e ne è anima l'anima sempre presente dello scrittore.

Peccato che egli abbia voluto turbare quell'ideale unità con episodii domestici, che male interrompono e ritardano lo svolgimento dell'azione storica, e che al confronto di quella grande azione rimpiccoliscono troppo! Ma egli, per il suo fine politico, volle forse indulgere ai gusti del tempo e del pubblico, e per esser letto da tutti, intrecciò [167] alla storia le fila di quel tetro romanzo d'amore che commosse tanti animi, e che oggi mi sembra una specie di melodramma vittorughiano interpolato in una epopea.

E un'epopea veramente fu questo libro; epopea cui non manca che il verso, non l'onda del numero. E l'onda poetica della prosa guerrazziana, prescindendo dalle intemperanze che le son consuete, è qui al suo posto assai più che in altri romanzi del Nostro. Egli stesso chiamò poema questo suo libro, e con tutta ragione: epica ne è la materia, epici ne sono gli eroi, epici furon gli effetti che esso produsse, affrettando le giornate del nostro riscatto.

Ma a noi che importa del nome col quale si debba chiamare un libro che operò quei miracoli? Se c'è una cosa che importi, è questa soltanto: che il libro, il quale operò quei miracoli sopra un'intera generazione, la generazione presente più non lo legge, perchè l'esecuzione non corrisponde in esso alla ispirazione caldissima. Anche l'autore, più tardi, dichiarò essergli sembrata necessaria ma detestabile l'arte onde fu concepito L'assedio di Firenze. Ma, ad onta di tutto, vi sono bellezze di primissimo ordine in questo romanzo o poema che voglia chiamarsi; e poema o romanzo che sia, non dobbiamo dimenticare che i nostri padroni di allora, i nostri padroni di Vienna, lo condannarono [168] e lo temerono come una battaglia vinta contro di loro; che per l'Austria fu una minaccia e una sfida ad oltranza, come per noi fu conforto e argomento a risorgere e a insorgere contro di lei. Minaccia e conforto, protesta ed augurio, rivendicazione e glorificazione: ecco, o signori, ciò che fu questo libro.

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