La fama del Guerrazzi, già grande, divenne grandissima e popolare dopo la comparsa dell'Assedio di Firenze, che fu dovuto stampare a Parigi con lo pseudonimo di Anselmo Gualandi. E quella fama consolidarono o accrebbero le varie opere pubblicate da lui successivamente nel giro di pochi anni: Veronica Cybo, una di quelle storie di sangue che piacquero troppo all'autore, ma forte e rapida, senza divagazioni e senza lirismi; Isabella Orsini, altra domestica tragedia quasi gemella alla precedente, ma più lenta e più faticosa di quella; poi le Orazioni funebri di illustri italiani, sempre nobili di pensiero e calde di sentimento civile; e poi I nuovi tartufi, modello di narrazione acremente umoristica, e battaglia politica contro i seguaci di idee moderate. Ma della sua potenza di grande umorista il Guerrazzi aveva già dato un saggio mirabile fin dal suo esilio di Montepulciano, [169] ove scrisse quel minuscolo capolavoro che è ancora La serpicina. In questa breve novella è svolto un concetto estremamente pessimistico dell'umanità, con una forza di humour a cui conferisce grazia quel sapore d'antico che è nello stile, e ne tempera l'amarezza. Quando, per altro, l'autore volle insistere troppo su quello stesso concetto, diluendolo nell'interminabile arringa dell'Asino contro il genere umano, riuscì fastidioso e pesante, e tutto quello sforzo di erudizione e di satira arguta non potè dar ragione all'immane raquisitoria dell'indignato e sapiente quadrupede.
Quanto meglio, qualche anno dopo, rifulse l'estro umoristico del Livornese in quel raggio di sole che è Il buco nel muro, vero raggio di sole in mezzo a tutta la tetra opera sua, e vero inno alla pace serena della famiglia, di cui non pareva capace quell'orco, quel parricida, quel rorator di fanciulli che fu predicato il Guerrazzi!
Nè, fra le molteplici occupazioni letterarie e forensi, cessava l'attività politica del cittadino, come non veniva mai meno nello scrittore il pensiero della patria, inspiratore diretto o indiretto di ogni suo libro. Così nel '47, pubblicando l'elogio di Amelia Calami, traeva anche da esso occasione a ribattere il suo Delenda Carthago, e terminava lo scritto con queste fiere parole: «Chè se alcuno osserverà, nè pietoso nè savio essere stato il consiglio di mescere [170] tanto odio nel discorso funerale di mitissima donna, io gli rispondo che la mia religione mi insegna acuire sopra le tombe, sopra gli altari, sui fonti battesimali, su tutto, la spada che deve alla fine affrancare l'Italia dallo abborrito straniero. Catone il Censore costumava concludere ogni sua orazione col motto: Vuolsi sovvertire Cartagine; sicchè, poco prima che spirasse, l'anima sua esultò delle puniche fiamme. Così gl'Italiani finiscano prece, lettera, orazione, tutto, con le parole: Fuori stranieri! E gli stranieri, sotto lo indomabile odio, anderanno dispersi. Allora poi favelleremo d'amore.»
In quello stesso anno 1847, nell'imminenza di quelli avvenimenti politici che egli aveva cooperato a maturare, lanciò per le stampe il Discorso al Principe e al Popolo, col quale chiedeva al Granduca una costituzione. Se non che, di lì a poco, accusato di macchinazione pericolosa contro il Granduca medesimo, venne arrestato di nuovo e di nuovo mandato a Portoferraio. Prosciolto per insufficienza di prove quando già era stata promulgata la costituzione, riuscì deputato al Consiglio toscano, ma non pei suffragi dei Livornesi. E poichè a Livorno erano scoppiati disordini, egli vi andò paciere, sedò quei tumulti, spadroneggiò, e si creò nuovi nemici. Intanto, mentre egli era già al potere come ministro dell'interno col Montanelli, Leopoldo II fuggiva da Firenze l'8 febbraio del [171] '49, e si formava un governo provvisorio col noto triumvirato, che fu in realtà una vera dittatura del solo Guerrazzi.
Deputato e ministro, triumviro e dittatore, la sua vita di quel tempo appartiene alla storia, e la storia la giudicherà. I contemporanei lo fecero segno ad accuse che è carità di patria non raccogliere; lo accusarono, fra altro, di malversazione del pubblico danaro, e fu luminosamente provato che lo amministrò con tanta rettitudine da averci rimesso del suo. Potè commettere errori, non colpe; ma è certo che temperò molti eccessi, frenò molti abusi, e impedì con gran senso pratico la proclamazione della repubblica toscana, resistendo al Mazzini che gliela imponeva. Non eran quelli i momenti da pensare a repubbliche; tanto è vero che il mese appresso ogni concetta speranza cadeva a Novara, e che il Granduca tornò a Firenze, e ci tornò con gli Austriaci. E il Granduca e gli Austriaci seppellirono il Dittatore nel mastio di Volterra, lo sottoposero a iniquo processo, per delitto di lesa maestà, e dopo quattro anni d'iniquo processo lo condannarono all'ergastolo, commutatogli nell'esilio perpetuo.
A questa quarta prigionia e a questo lungo processo dobbiamo uno dei libri più belli del Guerrazzi, l'Apologia della sua vita politica, e il più tristo di tutti i suoi libri: Beatrice Cenci.
«Scritto in carcere e generato perciò fra lacrime [172] e sangue» disse l'autore questo romanzo; e il romanzo, pur troppo, gronda di sangue anche più che di lacrime. Vera orgia di atrocità mostruose, dove par che il poeta abbia davvero voluto versare tutto il fiele dell'anima sua invelenita da tante persecuzioni, la Beatrice Cenci fu letta anche troppo, con la bramosia delle cose malsane, attraendo con la satanica bellezza di molte sue pagine. Oggi non la ricorda più alcuno, ed è mera giustizia. La fama del Guerrazzi non ha bisogno di esser raccomandata al ricordo di un libro così malefico, e l'autore non tardò a farne degnissima ammenda con le storie di argomento côrso, inspirategli dalla forte isola che gli fu terra d'esilio: La torre di Nonza, il Moscone e il Pasquale Paoli.
Questo grande romanzo di libertà, pubblicato nel '60, è degno fratello all'Assedio di Firenze per l'argomento e per l'indole, e lo supera come opera d'arte matura, più schietta, più impersonale, più semplice. Ma i tempi erano mutati, e cessate le più forti ragioni che avevano fatto cercare con tanta avidità i volumi del fiero scrittore; onde il Pasquale Paoli, che è giudicato la più bella prosa narrativa di lui, non suscitò gli entusiasmi che avevano accolto i suoi primi romanzi.
Dalla Corsica lo smanioso esule era fuggito, con pericoli e stenti incredibili, fino dal '57, e si era ridotto a Genova a aspettarvi gli eventi che avrebbero [173] dovuto permettergli di tornare in Toscana. Ma il '59 arrivò, le sorti d'Italia cambiarono con rapido quanto felice rivolgimento, e al poeta dell'Assedio di Firenze non fu ancora concesso il sospirato rimpatrio, che i governanti d'allora temevano pericoloso. Ed egli se ne crucciò tanto più, perchè, amante della patria davvero e non dei partiti, aveva voluta e promossa efficacemente l'annessione della Toscana al Piemonte e l'unità della nazione con la Dinastia di Savoia. Vittorio Emanuele dovette comprendere il giusto risentimento del cittadino benemerito e illustre, e volle vederlo e parlargli. Chiamatolo a Torino, cercò di persuaderlo a restarvi, con qualunque carica avesse potuto desiderare, offrendosi pronto a crearne magari una apposta per lui. Ringraziava commosso il Guerrazzi, ma rispondeva al gran Re non desiderare e non chiedere altro che potersene tornar con onore a casa sua e a' suoi studi, non volendo tornarvi con l'amnistia che il governo provvisorio gli aveva largita.
E a Livorno potè rientrar finalmente nel '62, per la deputazione conferitagli da' suoi concittadini, i quali più tardi, con manifesta ingratitudine, gliela ritolsero. Forse non era piaciuta l'attitudine violenta che egli aveva presa anche in Parlamento contro quella che usava chiamare l'empia setta dei moderati. E il vecchio gladiatore allora si ritirò dall'arena, confinandosi nel suo romitorio di Cecina, [174] stanco di mente, offeso di cuore, scontento di sè e di tutti. Ivi passò i suoi ultimi anni «in compagnia del mare, delle foreste scarmigliate dal vento, e della malaria», invocando pace, e non ottenendola che dalla morte il 23 settembre 1873.
Dodici anni dopo, Livorno gli eresse una statua, che lo rappresenta seduto come chi medita e scrive. No, no! Alto in piedi e diritto doveva sorgere dal suo piedistallo chi nacque alla lotta e lottando invecchiò. Guerrazzi in poltrona, io non me lo so figurare neanche di marmo!