V.

Non ho neppure accennato alle ultime opere guerrazziane, perchè nulla esse aggiunsero alla fama letteraria dello scrittore. L'assedio di Roma, uscito nel '64, è già segno della stanchezza di quel poderoso intelletto. L'animo però vi apparisce sempre fiero, e fiero l'odio contro ogni avanzo di vecchia tirannide. Egli non poteva esser pago finchè tutta quanta l'Italia non fosse stata degl'Italiani; e perciò la voce dell'antico leone, come aveva ruggito nel Parlamento contro la cessione di Nizza alla Francia, così continuava a ruggir nell'Assedio di Roma contro il dominio papale e borbonico: - «Se il Demonio potesse o volesse venire al mondo per istrascinar nel suo inferno Papa e Borbone e [175] d'ogni risma stranieri, ben venga il Demonio: noi lo saluteremo Demonio Iº Re d'Italia; purchè venga armato di ferro e di fuoco». Costanza e coscienza mirabile di scrittore e di cittadino, che aveva proclamato doversi ogni uomo proporre lo scopo più immediatamente utile alla sua patria, e a quello tendere sempre con ogni sua forza. Nè mai in alcun uomo alle belle parole risposero i fatti come in quest'uno.

Discendente legittimo di Dante e di Machiavelli, d'Alfieri e di Foscolo, come scrittore sentì in pieno petto l'ondata del Byron, che gli scemò la schiettezza dell'arte, ma non la tenace italianità degli spiriti. E a riuscir degno davvero dei sommi italiani da cui discendeva, non gli mancò nè l'ingegno nè l'animo, ma solo una più equilibrata armonia tra le sue facoltà: chè in lui la fantasia prepotè troppo sul gusto, la passione sul raziocinio, la carità della patria su l'amore dell'arte. Difetto glorioso quest'ultimo, che il Guerrazzi ebbe comune col Berchet e col Niccolini, per non citare che i due poeti ai quali somiglia di più, e che sono i più degni di essergli paragonati fra quanti nel periodo nel nostro risorgimento intesero a fare opera di patriotti più che d'artisti.

Quella organica sproporzione di forze che era nel suo cervello, e quella soverchia preoccupazione costante di un fine politico estrinseco all'arte, oltre [176] che le vicende d'una vita d'azione così combattuta, impedirono a lui di lasciare un'opera perfetta che abbia vera probabilità di resistere al tempo. Anzi, se si eccettui più d'una delle sue cose minori, che l'Italia dovrà tornare a leggere e ammirare più che oggi non faccia, la sua produzione è quasi già tutta invecchiata, mentre egli avrebbe potuto restare uno dei più grandi prosatori del secolo decimonono. Basterebbe a provarlo l'episodio del buon Romeo dantesco, parafrasato nella Battaglia di Benevento in alcune pagine semplici e commoventi che valgono tutto il romanzo e attestano le straordinarie doti d'artista che erano già in quel giovine di 22 anni. Perchè anche il Guerrazzi, come è accaduto sempre, prima d'Orazio e dopo d'Orazio, riesce tanto più grande scrittore quanto meno se lo propone e quando meno ci pensa. Professus grandia, turget!

Delle sue doti fu sempre conscio e superbo, ma ebbe anche sempre un concetto assai chiaro di ciò che aveva voluto essere e di ciò che poteva valere l'opera sua. Basti, fra tanti accenni, quello che si legge in una sua bellissima lettera al Cantù, pubblicata recentemente, ove è detto che i suoi libri «dureranno, come opera un rimedio, fin che dura la malattia. Quando sorgerà il giorno della vera, della grande libertà, cesseranno, come il lume della lucerna sviene all'apparire del sole».

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Uomo e scrittore, ebbe ambizioni e virtù d'altri tempi; onde tutto gli parve così meschino nel tempo in cui visse, che, trovatosi a governare l'intera Toscana, gli sembrò di recitare una tragedia di Alfieri coi burattini, e scrivendo storie o romanzi, ne fece parlare gli eroi come parlavano gli eroi di Plutarco. Ma ambizioni e virtù gli sorresse e scaldò un unico infinito amore all'Italia e un unico odio infinito per tutti i nemici di lei. E a quell'amore e a quell'odio votò la sua vita, «scrivendo, cospirando, soffrendo, operando (ammonisce il Carducci) come da gran tempo non usava in Toscana».

Di tutto questo egli non domandò nè sperò altro premio che quello dovuto dopo la morte a coloro che hanno spesa nobilmente la vita in prò della patria; «un solo premio, diceva, ma grande e divino: quello di sentirsi ricordare dai superstiti con amorosa benevolenza».

E noi, o Signori, andiamo dimenticando quest'uomo, come abbiamo dimenticata oramai quasi tutta una schiera gloriosa di pensatori e di poeti, che, dall'Alfieri al Guerrazzi, si affaticarono a crearci, se non altro, la volontà d'esser liberi; oppure ci ricordiamo di alcuni di loro per frugar nella loro vita e nel loro sepolcro con indiscreta curiosità di eruditi o di anatomisti....

Noi siamo una generazione di piccoli critici e di grandissimi ingrati.

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