I.

La poesia del risorgimento italiano nacque indubbiamente con l'Alfieri; il quale, dopo aver convertito in politico il sentimento civile del Parini, dopo aver mosso su le scene guerra a' tiranni, e aver cantato l'abbattimento della Bastiglia, e averne baciate le rovine con labbro di fervido ammiratore della Rivoluzione, sbigottì degli eccessi, e odiò i Francesi calati e rimasti in Italia non tanto da redentori quanto da spadroneggiatori. Pare che su gli estremi della vita si pentisse, almeno un po', di aver confuso i rancori suoi privati e il disdegno de' fatti brutali con la grande idealità, la grande opera, la grande efficacia, che erano state ad ogni modo e duravano ne' rivolgimenti dal 1789 in poi: ma se quel sentimento lo fe' dubitare, forse, di essere riuscito, nel Misogallo, ostile a torto o troppo; perchè mai avrebbe dovuto rinnegare la dedica del Bruto II al futuro popolo italiano, e il sonetto in cui aveva [129] vaticinato che quel popolo, educato anche da lui medesimo nella coscienza nazionale, sarebbe poi sceso in campo contro i Francesi? Potè rimpiangere di avere scagliato qualche freccia avvelenata, non già di avere ridesti gli animi e poste egli in mano le armi ai soldati dell'Italia sua.

Se non che, mentre l'Alfieri da quella solitudine sdegnosa, e direi misantropica per amor di patria, guardava bieco gli eventi, questi suscitavano intanto per ogni parte della penisola, e più specialmente a Torino, a Milano, a Venezia, a Bologna, le voci de' verseggiatori in due cori discordi, d'ammirazione e amore, di scherno e abominazione. Non mette il conto d'aggiungere che le vittorie del Bonaparte fecero presto tacere quest'ultimo coro, nè, finchè il primo console e l'imperatore durò, più che qualche sommesso borbottìo o qualche maliziosa risata fecero agli orecchi bene attenti la parte commessa un tempo da' Romani agli schiavi ne' trionfi. Fatto sta che avemmo subito, nel 1796, la Marsigliese:

Cittadini, a noi tornati

Son di gloria i fausti giorni;

De' Tiranni insanguinati

La memoria già perì;

e tutto un Parnaso democratico ossia Raccolta di poesie repubblicane de' più celebri autori viventi [130] uscì in luce nel 1801, vantandosi de' nomi (per dir solo i principalissimi) del Gianni, del Fantoni, del Mascheroni, del Foscolo, del Monti. Ne' due volumetti del Parnaso è manifesto, non pure il fatto storico, essere ormai in molti eletti pieno e cosciente il desiderio d'un'Italia unita tutta quanta e indipendente e libera, perfino con Roma capitale, ma anche la tendenza estetica verso espressioni nuove della vita nuova nazionale. Certo vi perdurano i metri consueti alla lirica patriottica de' secoli innanzi, il sonetto meditato, la grave canzone; e non vi mancano le immagini e i nomi della mitologia e della storia greco-romana, cui anzi davano un certo rincalzo gli avvenimenti stessi; ma si fa innanzi ardita e snella ne' settenarii e negli ottonarii la canzonetta, e l'inno vi romoreggia d'incalzanti decasillabi.

Onde ecco scendere sulla Lombardia due nuove Dee, la Fede e la Libertà, sorelle:

Ecco l'aere d'Insubria, e la terra

D'una luce novella risplende;

È la coppia divina che scende

Dai natali soggiorni del Ciel.

L'una Diva sostien la grand'asta

Colla mano ai tiranni funesta;

L'altra copre le membra e la testa

E i bei lumi d'un candido vel....

[131]

Ecco giungonsi amiche le destre,

L'una e l'altra concorde si abbraccia.

Sembra un inno del 1848 per Pio IX. Sapete chi, nel 1796, cantava così? Un seminarista, infervoratosi nel piantare l'albero della Libertà in mezzo al cortile del suo Seminario; e quel seminarista era Giovanni Torti; l'amico del Berchet e del Manzoni; l'autore de' versi che il Manzoni dirà pochi ma valenti; il patriotta che da vecchio esulterà ammirando e cantando in Milano, ben altro che l'albero della Libertà!, le barricate de' cinque giorni gloriosi.

Basti un tale esempio per tutti. E voi mi concederete, a vantaggio vostro, di saltar più anelli della catena che lega strettamente, più assai che non veggano di solito i critici della nostra letteratura, la poesia di quegli anni fortunosi a quella che fu poi detta romantica. Ma di tal saldatura ecco subito una conferma e una riprova: proprio quel Parnaso democratico del 1801 fu ristampato a Bologna da' liberali rivoluzionarii nel marzo 1831, come libro di propaganda, sotto il titolo nuovo d'Antologia repubblicana: e in fine, senza alcuna avvertenza, come normale e giusta continuazione, vi si trovano rime di Gabriele Rossetti e di Giovanni Berchet. Chè il grido gioioso del poeta [132] abruzzese per la rivoluzione napoletana del '20, e il grido incitatore del poeta milanese pe' moti del '30 nell'Emilia e in Romagna, dovevano apparire infatti, quali erano, la risposta che tutto un popolo faceva ormai, unanime e ad una voce sola, a ciò che pochi eletti, su la fine del secolo scorso e su' primi di questo, avevano cantato volgendosi a lui.

Ma se a intendere come Napoli e l'Italia ebbero dal '20 in poi l'arte del Rossetti non occorre quasi altro che tener d'occhio lo svolgersi della lirica dal Metastasio nel Monti, e dal Monti ne' suoi immediati prosecutori, per l'applicazione ai fatti e ai sentimenti politici; mal s'intenderebbe l'arte del Berchet trascurando a questo punto colui che gli fu amico e maestro, Alessandro Manzoni.

Oh come ho goduto, mercoledì scorso, a sentirne in questa medesima sala le lodi, dalla voce eloquente del Panzacchi, a proposito de' Promessi Sposi! Nè per la strettezza dell'ora potè l'amico mio aggiungere alle altre questa lode, che il libro, nel '27, quando uscì, era altamente benefico anche perchè animato di nobile patriottismo. Non sono un'allegoria, come affermarlo sul serio?, i Promessi Sposi: gli Spagnuoli che vi son descritti nostri padroni nel secolo XVII, son essi gli Spagnuoli, [133] e non i Tedeschi del XIX; Renzo è un povero contadino lombardo, non il popolo italiano angariato; e le sue nozze con Lucia, avversate da don Rodrigo e aiutate da fra Cristoforo, non simboleggiano per nulla le nozze del popolo italiano con l'Italia, a dispetto della Santa Alleanza, sotto la protezione del pontefice. No; mettiamo da parte queste chimere. Ma appunto perchè la macchina fantastica del romanzo s'incardina così saldamente nella verità storica, e la Lombardia sotto il mal governo straniero è rappresentata quale veramente fu, miseranda; quanti seppero leggere e ripensarono (che che ne pensasse sulle prime anche il Berchet) si accorsero la lezione del passato valere pel presente e dover valere per l'avvenire: un popolo non può essere felice quando è amministrato dallo straniero. Così i Promessi Sposi apparvero fecondi di bene morale e politico anche al Sismondi e al Giordani; quegli protestante, questi classicheggiante: e contro ciò cui poteva indurli la loro fede religiosa ed estetica verso un'opera d'intendimenti cattolici e di fattura romantica, que' due valentuomini le plaudirono. L'Italia, dissero, di tali libri ha bisogno. E libri tali che neppur la cruda censura austriaca poteva proibire, erano anche per ciò meglio desiderabili ed efficaci; come efficaci, voi lo [134] sapete, riuscirono per la loro semplice verità Le mie prigioni del Pellico. Più d'un censore austriaco de' furbi, io mi credo avrebbe preferito di gran lunga si diffondessero i canti della maledizione anzi che sì fatte pagine innocue della così detta rassegnazione.

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