Ma tutto il Manzoni, per grande che egli quivi apparisca, non sta entro i Promessi Sposi; nè tutto il pensiero suo politico sta in un consiglio indiretto. Quando nel '27 diè in luce il romanzo, già da un pezzo aveva scritte le liriche e le tragedie, e tutti già lo acclamavano o biasimavano capo di quella scuola romantica che era ormai sinonimo di congiura liberalesca, come scuola classica voleva ormai dire congrega di reazionarii e di spie: tanto fra noi la questione letteraria si era rapidamente snaturata e confusa nella grande questione nazionale. E già allora i prigionieri dello Spielberg si canticchiavano l'un l'altro a consolazione certi versi del Trionfo della Libertà del Manzoni giovinetto; già i nostri giovani imparavano a mente i cori del Carmagnola e dell'Adelchi; già gli amici del poeta [135] sapevano la canzone pel Proclama di Rimini del '14 e l'ode pe' moti del '21.
Al Manzoni, che nel '14 firmò la protesta contro il Senato perchè gli sembrava non doversi invocare dagli stranieri il re, ma adunare i comizi che deliberassero: nel '48 firmò, durante le Cinque giornate, per la strada, sul cappello d'un amico, la petizione a Carlo Alberto perchè occupasse Milano, e s'addolorava poi che la firma, riuscitagli necessariamente tremula in quel disagio, potesse esser creduta tremula per altra ragione; accolse in sua casa il Mazzini, e gli disse: - Noi due siamo forse i più antichi unitarii che conti fra i vivi l'Italia! -: accolse il Garibaldi, e, andandogli incontro, esclamò: - Se mi sento un nulla dinanzi a qualsiasi de' vostri Mille, che sarà dinanzi al loro capitano? -; accettò di esser fatto senatore del Regno d'Italia, e le due volte che si recò a votare furono per la proclamazione del Regno e pel trasferimento della capitale da Torino a Firenze, verso Roma; di Roma libera accettò la cittadinanza onestamente vantandosi delle aspirazioni costanti della lunga sua vita all'indipendenza e unità d'Italia; scrisse parole di reverente encomio per Anita Garibaldi; rifiutò di dettare l'iscrizione pel monumento milanese a Napoleone III, reo di Villafranca [136] e Mentana; al Manzoni, tale e storicamente sì fatto, nessuno può ormai, nè deve, negare un alto sentimento patriottico, non scemato mai dalla fede cattolica altamente sentita, e serbato incolume e puro, sempre, da ogni indegna mistura.
Bene ha narrato Giambattista Giorgini il dialogo tra il Manzoni e il Cavour quando, proclamata la costituzione del Regno, uscirono que' due insieme dal palazzo Madama, e la folla ammirata li applaudì. «Due grandi forze avevano fatto insieme l'Italia. Prima il sentimento a cui s'era inspirata tutta la nostra letteratura, quando, da palestra di verseggiatori eruditi, che era divenuta dopo il Petrarca, tornò a essere nazionale e civile. Secondo, la politica di Casa Savoia. Queste due forze avevano camminato per secoli verso la stessa mèta, ma senza conoscersi, senza sapere l'una dell'altra: anzi l'una dell'altra sospettose e nemiche. I due più grandi rappresentanti di queste due forze che s'eran finalmente incontrate, qui per la prima volta si mostravano insieme, e si stringevano in quel momento la mano.» Il Manzoni, agli applausi, non resse; e nella sua invitta modestia, per istornarli da sè, si volse anche lui al Cavour e si diè a picchiar le mani più forte degli altri. Poi, usciti dalla calca, là ne' Portici, un battibecco: a [137] chi andavano veramente quegli applausi? nessun de' due li voleva per sè.
- Insomma, disse il Manzoni, Ella vorrebbe ch'io dessi ragione al campanaro che, sentendo levare a cielo la predica, si meravigliava che tutti lodassero quello che l'aveva fatta, e nessuno parlasse di lui, che l'aveva sonata. - Sicuro, rispose il Cavour; se il campanaro non l'avesse sonata, nessuno ci sarebbe andato, e il predicatore avrebbe parlato alle panche! -
Già, una buona parte di questa Italia si deve ai poeti! esclamò poi Garibaldi, il poeta che poco innanzi di morire salutava sul davanzale della finestra le capinere, riconoscendo in esse le anime delle sue bambine. Il Cavour e Garibaldi ebbero piena ragione. Fu l'arte che in Italia diffuse e scaldò l'amore alla patria; l'arte in tutte le sue forme, plastiche, figurative, melodiche, letterarie; fin là dove meno si addiceva, nella espressione cattedratica della scienza. Ma di esse forme vi si prestò una più direttamente, la poesia; nel melodramma, nel dramma, nel romanzo (che fu allora più che mai opera di poesia), nella lirica, nella satira. Nè voi crederete che io possa in tempo sì corto parlarvi a fondo di tanto; e vi attenderete da un altro lettore almeno la figura di Giuseppe Giusti e l'esame [138] dell'arte di lui, del quale così nel 1846 scriveva il Berchet ad una ammiratrice di tutt'e due: «Uno sguardo acuto e malizioso sulle magagne del secolo, una forma nuova data alla satira, e un'assenza di tutte le reminiscenze della scuola, uno stile vividissimo, un accozzamento di imagini originali, una lingua tutta fresca; che vuol di più?»
La musica. «Veramente per amare la musica italiana d'oggi e comprenderla con intelletto d'amore (scriveva nel 1828-29 Arrigo Heine) bisogna aver dinanzi agli occhi il popolo stesso, i suoi dolori, le sue gioie.... Alla povera Italia schiava è vietato di parlare, ed ella non può esprimere i sentimenti del cuor suo che per mezzo della musica. Tutto il suo odio contro la dominazione straniera, il suo entusiasmo per la libertà, il tormento della propria impotenza, il mesto ricordo dell'antica grandezza, e poi la debole sua speranza, l'ansioso attendere, la bramosia di soccorso; tutto ciò si nasconde in quelle melodie che dalla più grottesca ebbrezza della vita trascorrono in elegiaca tenerezza e in quelle pantomime che da lusinghevoli carezze prorompono in minaccioso sdegno.» Nè le melodie avevano in sè tale anima, senza che le parole del libretto non si sentissero talvolta sospinte a incauti sospiri, a gridi pericolosi. Si alza fin dall'Italiana in Algeri, già [139] nel 1813, d'accanto a Mustafà che sta per essere nominato Pappataci, la cabaletta patriottica:
...... Ah se pietà ti desta
Il mio periglio, il mio tenero amore,
Se parlano al tuo cuore
Patria, dovere, onor, dagli altri apprendi
A mostrarti Italiano, e alle vicende
Della volubil sorte
Una donna t'insegni ad esser forte.
Pensa alla Patria e intrepido
Il tuo dovere adempi;
Vedi per tutta Italia
Rinascere gli esempi
D'ardire e di valor!
Se questo fu nel melodramma buffo, voi sapete quanto più nel serio: e anche là dove nè il maestro nè il librettista ci avevan pensato, musica e versi divampavano di patriottismo per la volontà sovrana del pubblico, che non pur coglieva a volo ogni allusione, ma occasioni e pretesti inventava da sè. Più ancora, ben s'intende, nel dramma, dove cercata e voluta fu da tanti la diretta o indiretta commozione del sentimento liberale; dallo slancio, fuor di luogo, di Paolo nella Francesca del Pellico:
Per te, per te che cittadini hai prodi,
Italia mia, combatterò se oltraggio
Ti moverà la invidia. E il più gentile
Terren non sei di quanti scalda il sole?
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D'ogni bell'arte non sei madre, o Italia?
Polve d'eroi non è la polve tua?
Agli avi miei tu valor desti e seggio,
E tutto quanto ho di più caro alberghi!
alla profezia di Giovanni da Procida nella tragedia del Niccolini, profezia che il vecchio poeta potè rammentare con nobile orgoglio a Vittorio Emanuele II in Firenze nel 1860:
Qui necessario estimo un re possente;
Sia di quel re scettro la spada e l'elmo
La sua corona. Le divise voglie
A concordia riduca; a Italia sani
Le servili ferite e la ricrei;
E più non sia, cui fu provincia il mondo,
Provincia a tutti, e di straniere genti
Preda e ludibrio. Cesseran le guerre
Che hanno trionfi infami; e quel possente
Sarà simile al sol mentre con dense
Tenebre ei pugna, ove fra lor combattono
Ciechi fratelli; e quando alfine è vinta
Quella notte crudel, si riconoscono
E si abbraccian piangendo!
alla sentenza che divenne proverbiale, nel Giovanni da Procida stesso,
...... Il Franco
Ripassi l'Alpi e tornerà fratello!
a tutto quanto l'Arnaldo da Brescia, dove l'argomento [141] non porge soltanto occasioni ma è esso stesso concepito dal poeta come una macchina di guerra, contro le idee che a lui sembravano dannose, e per la libertà degli ordinamenti e delle coscienze.
Affine al dramma storico fu allora pensato ed eseguito, con la mistura del racconto e del dialogo, quel genere di romanzo di cui il germe spiccatosi da un dramma del Goethe si era svolto così mirabilmente sotto il caldo alito avvivatore dello Scott.
Dianzi ho richiamata per un momento la vostra attenzione a considerare il valore de' Promessi Sposi, anche rispetto al sentimento patriottico; ma come sfuggirei meritata censura di grave dimenticanza se non rammentassi qui i libri del Guerrazzi? La Battaglia di Benevento e L'Assedio di Firenze, ne' quali ei volle di proposito, fondendo insieme il romanzo storico dello Scott co' poemetti epico-lirici del Byron, combattere una battaglia, ebbero su la gioventù l'ardente sapore e i rapidi e convulsi effetti dell'alcool. E dopo di essi piace rammentare i libri del Grossi, del Cantù, del D'Azeglio, di tutt'altro intendimento e di tutt'altra esecuzione: perchè appunto, in tanta varietà di temperamento e di propositi estetici, stupenda riesce la concordia universale a conseguire un fine comune.
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