LA POESIA PATRIOTTICA E GIOVANNI BERCHET

CONFERENZA

DI

GUIDO MAZZONI.

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Signore e Signori,

Qualche anno fa, nel chiudere una di queste letture fiorentine nelle quali vo ormai militando da veterano, ebbi a citare tra le poche liriche vivaci del secolo XVI la Canzone in laude dei Venzonesi. Concedetemi che di quella chiusa io faccia il principio alla lettura d'oggi.

Nel 1509 i Tedeschi sboccano dalla Pontebba in Italia: i nobili veneziani abbandonano il varco che loro è stato commesso per le difese; ma vi accorre un dottore di Venzone con quaranta de' suoi concittadini; e costoro sorreggono le scorate milizie di San Marco, per tre giorni combattono, aiutati di munizioni da una gentildonna che fonde a ciò le scodelle di stagno e con rischio di vita le reca ella stessa nella battaglia, e ricacciano gl'invasori.

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Eran gionti al stretto passo

Nove milia e più Germani:

Avean preso il monte i cani!:

Ma cacciati fôro al basso

Da quaranta di Venzone.

Su su su, Venzon, Venzone!

Tale il canto allora subito levatosi ad esaltare l'eroica prova fatta dalla virtù italiana che in «tanto piccol bastione» aveva «spinta e esclusa la gente cruda e atroce fuori d'Italia.» Par di sentire il ritornello dell'inno garibaldino. Ed io, qualche anno fa, lette alcune strofe, dicevo: «Un popolo che opera così e canta le sue glorie così, meritava lirici d'arte migliori di quelli del secolo XVI: e perchè li meritava, mutati i criterii dell'arte, li ebbe.»

E proprio a me tocca l'onore di parlarvi oggi di lirici ben più degni che non furono, in genere, que' petrarchisti, que' classicheggianti, e poi que' francesizzanti, più o meno eleganti e ingegnosi, ma senza anima. Subito che il popolo d'Italia fu scosso e sussultò là dentro il secolare sepolcro, e ne risorse con la spada in pugno, se non ancora con l'alloro alle chiome, altri canti ascoltò di speranza e d'incitamento; e li imparò e fe' suoi per le congiure, pe' martirii, per le battaglie. Certo, anche innanzi, [127] dal Cinquecento in giù, si era molto parlato in rima dell'Italia: basti rammentare il Filicaia: «Italia, Italia, o tu cui feo la sorte - Dono infelice di bellezza,» «Dov'è, Italia, il tuo braccio?»; e così via via. Ma che avrebbero mai che fare que' sospiri, anche se fossero tutti sinceri, que' sospiri di cortigiani o di buoni eruditi, con l'enorme voce e co' lapilli ardenti che eruppero dall'Italia, fatta tutta un vulcano? Morivano innocui i sospiri entro una tazza di cioccolata o sulla polvere d'un in-folio; i boati e la lava cacciaron via dalla terra, che gli ondeggiava sotto i piè, lo straniero. Sonetti e canzoni dilettavano, è vero, gli orecchi colti e le fantasie addottrinate co' suoni e con le immagini d'una romanità accademica: ma i canti nuovi confortarono l'esule e il prigioniero, suscitarono nel giovane la bramosia delle congiure o della guerra, mossero e ringagliardirono i muscoli nelle marce, si levarono di tra il fumo delle mischie quasi a guidare «Arcangeli della nuova età» (come il Carducci disse della Marsigliese) le baionette italiane contro gli oppressori.

Non tutti codesti effetti dovremo vedere oggi, perchè il giro prefisso quest'anno alle letture ci rattiene di qua dalle battaglie per l'indipendenza, di qua dal Poerio, dal Mameli, dal Prati, dal Mercantini; [128] ma di tutti sarà facile vedere almeno il germe, nell'esame, sia pur necessariamente rapido, della nostra poesia patriottica nel risorgimento fino al 1846.

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